Rifiuti smaltiti a prezzi bassi? «Gli imprenditori non possono non sospettare»
Il comandante Noe di Milano, Corsano: traffico dei rifiuti alimentato dalla materie prime prodotte in nero. E gli squali dell'immondizia rendono anticoncorrenziale lo smaltimento lecito
«Per determinate tipologie di rifiuti (materie plastiche non riciclabili, ndr) il discrimine è il prezzo che gli viene applicato. Un rifiuto, tendenzialmente, passa di mano a circa 250 euro a tonnellata dal produttore all’intermediario che poi dovrà trattarlo. Se qualcuno me lo ritira a 100 euro a tonnellata, c’è qualcosa che non va. Difficile che l’imprenditore non si ponga il problema che quel prezzo è assolutamente fuori mercato. E che quindi è verosimile che quel rifiuto non subirà alcun trattamento».
Così si esprime il tenente colonnello dei carabinieri Massimiliano Corsano, comandante del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Milano, sulla consapevolezza degli imprenditori del destino che avranno i loro scarti di produzione.
Valori lo ha intervistato a proposito di traffico dei rifiuti e incendi. Un tema all’attenzione della politica, grazie alla recente legge sugli ecoreati. Ma che allarma soprattutto l’opinione pubblica (#guerradeirifiuti) per i rischi sul piano sociale e ambientale.
E sempre più anche nel Nord Italia, dove i roghi di spazzatura accumulata ad hoc sono stati frequenti e importanti negli ultimi anni. Tanto che proprio il Noe svolge attività investigative specifiche per individuare i capannoni utilizzati per abbandonare rifiuti all’interno. E ne sta sequestrando diversi.
Lo smaltimento illecito di rifiuti ha tante facce
Ma riguardo il livello di responsabilità di chi i rifiuti li genera, il colonnello prosegue: «Ci sono dei casi nei quali la connivenza è a monte: io imprenditore cerco l’intermediario disonesto. E può derivare da una volontà di risparmiare oppure dal fatto che non fatturo, produco in nero, e devo anche limitare la quantità di rifiuti che esce ufficialmente dalla mia azienda. Perché se produco materie prime in nero, produco anche rifiuti in nero.
Tutta quella parte di produzione in nero la devo gestire su un mercato che non può essere lecito. In caso di controllo non posso fatturare un milione di euro di compravendita e poi produrre rifiuti per 1,5 milioni di euro. Perché ci sarebbe una quantità di rifiuti eccessiva rispetto alla quantità di prodotto. Quindi, una delle questioni a monte è sicuramente quella del nero di alcune aziende.
In alcuni casi c’è anche la mancanza di conoscenza della fine che farà il proprio rifiuto. Nel momento in cui imprenditore riceve, entro tre mesi, la classica quarta copia del formulario, l’imprenditore formalmente è a posto, ha fatto il suo. Del resto, nella grandissima parte dei casi, la documentazione è ineccepibile, per quanto falsa. Perché chi delinque nel settore è un professionista che ben conosce questo mondo e sa bene come produrla. Anche se ci sono dei parametri che, se non vengono rispettati, permettono di avere strumenti per far scattare un Alert!…».
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Interessi pienamente criminali, quindi, ma anche imprenditoria border-line o inconsapevole, tutti partecipi di una stessa logica: un mercato dei rifiuti dove l’osservato speciale è la plastica non riciclabile.
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«Consideri che la Cina mediamente ritirava circa 7 milioni di tonnellate l’anno di questi rifiuti da tutto il mondo, non solo dall’Italia. La quota parte italiana che di quel tipo di rifiuti andava naturalmente in Cina da anni, come sbocco autorizzato, adesso resta sul nostro mercato. Destinata sostanzialmente all’inceneritore. Quindi è aumentato enormemente il costo di conferimento nei termovalorizzatori, perché è aumentata enormemente la domanda in ingresso ma gli impianti non possono riceverla. Hanno infatti dei parametri standard relativi alle quantità e alle calorie che possono produrre.
In questa crepa del mercato qualche imprenditore criminale si è infilato e sta creando il meccanismo dell’abbandono nei capannoni e, in alcuni casi, dei roghi per cancellare le tracce. Il problema è che poi si crea un meccanismo dei prezzi che rende impossibile essere concorrenziali per gli imprenditori sani.
Fino a poco prima della chiusura del mercato cinese le materie plastiche non riciclabili entravano al termovalorizzatore a circa 85-90 euro a tonnellata, oggi hanno superato i 170 euro. Se un’impresa di smaltimento rifiuti, per conferire una tonnellata di plastica non riciclabile al termovalorizzatore, dovrà spendere 170 euro, cifra alla quale dovrà aggiungere i costi di trattamento e trasporto, non potrà chiedere meno di 250-300 euro a chi quei rifiuti li produce, se vuole guadagnarci qualcosa. Se, parallelamente, c’è qualcuno che le acquista a 100 euro perché sa che poi abbandonerà i rifiuti in un capannone e gli darà fuoco, io non sono concorrenziale».
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La crisi svuota i capannoni. Che diventano perfetti per stiparci rifiuti scomodi
E i famosi Alert! che dovrebbero mettere in allarme chi produce spazzatura, sono più difficili da rilevare per chi magari è proprietario di un sito usato a scopo di ecoreato. Tanto più se, a seguito della crisi economica recente, i capannoni sfitti e vuoti si sono moltiplicati rispetto al passato, diventando luoghi ideali per i trafficanti.
«Noi non possiamo dare per scontata la connivenza di chi affitta questi capannoni, almeno finché le indagini non ci dicono il contrario. In alcuni casi abbiamo registrato la collaborazione del proprietario del capannone, il quale ha scoperto che nel suo capannone si trovavano i rifiuti e ci ha avvisato.
Molto spesso si tratta di proprietari che si trovano da tutt’altra parte d’Italia rispetto al capannone di proprietà. Affittano il capannone, stipulano un contratto e percepiscono il loro introito, ma non hanno neanche modo di poter verificare l’uso effettivo che ne viene fatto. E a livello documentale è sempre tutto perfetto, anche se a nome di ditte inesistenti. Così, dopo che il sito è stato riempito di rifiuti, il titolare del contratto d’affitto diventa irreperibile».
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Capannoni vuoti stipati di nascosto, quindi. Ma i roghi hanno spesso coinvolto impianti di trattamento autorizzati. Andati in fumo all’improvviso, nella notte. Magari poco prima del controllo programmato dei tecnici di Arpa (Agenzia regionale protezione ambiente). Ma dopo il rogo cosa resta?
«Ci sono gli strumenti investigativi per ricostruire le volumetrie dei rifiuti che hanno preso fuoco, per stabilire che c’erano dei quantitativi superiori a quanto autorizzato, e ci sono gli strumenti per risalire alla tipologia dei rifiuti. Anche se non è semplice.
Noi abbiamo concluso l’anno scorso, con la Dda di Brescia, una grossa attività di indagine relativa un incendio del 2014, forse la prima del genere, e abbiamo ricostruito l’origine dei rifiuti addirittura dalla materia combusta. Quindi, attraverso la caratterizzazione dei rifiuti abbiamo rilevato che in quel sito, che pure era regolarmente autorizzato, si trovavano dei rifiuti che lì non potevano stare, perché per quelli non c’erano le autorizzazioni necessarie.
E siamo risaliti alla provenienza dei rifiuti, che in quel caso provenivano dalla Campania, al mancato trattamento in alcuni impianti del Nord, e al conferimento al termovalorizzatore di rifiuti che non erano stati trattati. Non ci preoccupiamo del reato di incendio ma di quello di traffico di rifiuti illecito».
Il fatto che avvengano dei roghi, in conclusione, è una spia che rende visibile il fenomeno. «Il rogo è l’extrema ratio, quando magari temono un controllo, o quando gli è un po’ scappata la mano e hanno esagerato coi quantitativi. Ma la norma è solo l’abbandono. È un fenomeno che abbiamo decifrato attraverso un lavoro di analisi che si fa da anni, e lo stiamo affrontando insieme alla magistratura».
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