“Le rotte del clima”. Un rapporto intersezionale sulle migrazioni ambientali

Crisi climatica e migrazioni: il report Le rotte del clima indaga chi è costretto a partire. Tra vulnerabilità, diritti e questione di genere

Migranti climatici © wabeno/iStockPhoto

I cambiamenti climatici sono stati definiti «la più grande e pervasiva minaccia alla società umana di cui il mondo abbia mai avuto esperienza». Lo racconta “Le Rotte del Clima”, la quarta edizione del report sulle migrazioni ambientali a cura di A Sud. Un lavoro sul campo che raccoglie le storie di 348 persone migranti per analizzare la relazione tra i fattori climatici e ambientali e le scelte migratorie. E questa relazione, sebbene difficile da far emergere con gli strumenti solitamente usati, è cruciale. I fattori climatici e ambientali hanno infatti una rilevanza decisiva nella scelte di migrare. E si sommano agli altri fattori determinanti quale acceleratore o principale causa dello spostamento forzato di intere popolazioni.

Migrazioni ambientali: cause intrecciate tra clima, guerre e povertà

L’inchiesta tra le persone migranti che hanno risposto alla domanda sulla ragione per l’abbandono del loro Paese rileva infatti che, tra coloro che hanno indicato ragioni di studio, lavoro e volontà di migliorare le proprie condizioni di vita, il 69% indica come concausa il peggioramento delle condizioni climatiche. Indagando a fondo sulle motivazioni che inducono a migrare, si scopre quindi che i fattori climatici e ambientali rivestono un ruolo significativo anche per quelle persone che poi vengono generalmente considerate come “migranti economici”. 

Il quadro delineato dalla ricerca “Le rotte del clima” è piuttosto complesso e rappresentativo dei fenomeni migratori contemporanei. Caratterizzati dal sommarsi di cause diverse e tra loro strettamente interconnesse. Sono infatti guerre, disastri ambientali e climatici, fame, povertà e dittature che portano alla decisione di lasciare il Paese di origine. E che rendono pertanto difficile l’isolamento del motivo climatico-ambientale. Al punto che oggi può risultare anacronistico attestarsi sulla rigida distinzione tra profughi di guerre, profughi economici e profughi ambientali.

«In questa complessità è tuttavia necessario far emergere che l’insicurezza climatica, assieme a ciò che ne deriva, costituisce la più grave minaccia a livello globale in termini di impatto», spiegano gli autori del report. «Soprattutto sulle situazioni di preesistente vulnerabilità».

Eventi climatici estremi e migrazioni: il caso africano

Per capire l’incidenza di questo fenomeno, basti pensare che solo nel 2024 in Africa ci sono stati 7,8 milioni di sfollamenti a causa di eventi meteorologici estremi indotti dai cambiamenti climatici, come rivela un rapporto pubblicato dalla Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (Ifrc), ripreso da Africa Rivista. Un aumento di 1,8 milioni di persone rispetto ai 6 milioni del 2023. La ricerca parla di sfollamenti, quindi di movimenti, e non di singole persone fisiche. Perché è tipico che queste persone siano costrette a muoversi e spostarsi più volte.

Anche l’inchiesta di Ifrc, oltretutto, sottolinea come sia difficile quantificare il numero di migrazioni dovute ai cambiamenti climatici e preferisce parlare di concause. Ma i numeri aiutano a capire l’incidenza degli eventi climatici estremi sul fenomeno migratorio africano. Allargando lo sguardo al periodo 2013-2024, infatti, il rapporto evidenzia che le inondazioni hanno causato almeno 30 milioni di sfollamenti nel continente africano. La siccità ne ha provocati circa 5 milioni. Stessa cifra anche per altri eventi metereologici estremi come tempeste, cicloni e uragani. Mentre è più difficile trovare una precisa correlazione numerica con le vittime di altri fenomeni, più estesi e diffusi, come l’innalzamento del livello del mare, l’aumento delle temperature o le ondate di caldo.

Migrazioni climatiche: prima interne, poi oltre i confini

Tornando all’inchiesta di A Sud, i dati del report “Le rotte del clima” indicano inoltre una sottovalutata rappresentazione dei fattori ambientali nella narrazione delle scelte migratorie. Anche perché le migrazioni indotte da fattori climatici e ambientali sono circoscritti a eventi che comportano molto spesso una migrazione interna al Paese di origine. Dalle aree rurali a quelle cittadine. Così che la percezione collettiva non associa le migrazioni con gli eventi climatici. Ma i dati forniti dal Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) mostrano che già a più 1,1 gradi il riscaldamento globale provoca ondate di caldo estremo, siccità, intense e ricorrenti alluvioni, incendi diffusi. Mettendo a rischio specie ed ecosistemi. Eventi che contribuiranno sempre più alle migrazioni oltre confine.

La Banca mondiale stima infatti che entro il 2050 i migranti indotti da fattori ambientali e climatici potrebbero arrivare quasi a 220 milioni di persone. Inoltre, scenari previsionali indicano che già dal 2070 interi Paesi nell’area tropicale potrebbero diventare completamente inabitabili a causa di temperature che supereranno la media annua di 29 gradi. Costringendo a quella migrazione oltre confine tanto temuta nel Nord del mondo e che invece abbiamo visto essere oggi assai meno diffusa di quanto si pensi.  

Per questo, spiegano gli autori del report “Le rotte del clima”, «le politiche di esternalizzazione dei confini dell’Unione europea intraprese negli anni, inducono, specialmente nelle coste Sud del Mediterraneo, a un circolo vizioso. Nel tentativo di bloccare gli spostamenti delle persone causati o concausati dai cambiamenti climatici, suddette politiche deprimono la capacità degli individui di adottare la migrazione stessa come strategia di adattamento. Intrappolandoli in aree dove esercitano un ulteriore stress sulle risorse naturali, in una spirale negativa. Inoltre, tali politiche comprimono le possibilità di accesso a un territorio precedentemente disponibile. Con una conseguente riduzione dei mezzi economici e dunque un’ulteriore pressione verso la migrazione».

Migrazioni climatiche e donne: il lato invisibile della crisi

Secondo le stime delle Nazioni Unite, circa l’80% delle persone sfollate internamente a causa dei cambiamenti climatici sono donne. Le quali costituiscono anche circa la metà dei migranti a livello mondiale e nell’Unione europea. «Lo studio del fenomeno della migrazione richiede pertanto di adottare un approccio intersezionale. Ovvero che includa il genere, l’età e la classe sociale del migrante», spiegano gli autori di “Le rotte del clima”. In quanto maggiormente dedite all’agricoltura di sussistenza o investite di compiti quali l’approvvigionamento di acqua potabile, le donne risultano essere maggiormente esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici.

Le disuguaglianze di genere aggravano ulteriormente tale condizione di vulnerabilità. Le donne hanno in generale un minor accesso alle risorse finanziarie, alla terra e all’istruzione. E limitato spazio per la piena partecipazione alla vita pubblica e politica. Con conseguenze significative: ridotta autonomia decisionale, capacità di incidere con le proprie istanze nelle politiche di adattamento e mitigazione, e maggiore dipendenza dagli uomini e dalle strutture familiari. Sono ad esempio le donne che, in occasione di un evento disastroso, sono meno frequentemente raggiunte da informazioni di allerta, dispongono di minori conoscenze del territorio, vantano ridotte reti sociali. Tutte componenti utili per trovare riparo.

Sono anche le prime a rinunciare a un pasto se, a causa di un’alluvione o della siccità, il raccolto viene contratto o perso. La prospettiva di genere rispetto alla migrazione climatica andrebbe inoltre presa in considerazione anche all’atto di valutazione della domanda di protezione internazionale di una donna. Ciò alla luce di un osservato aumento della violenza di genere a seguito di disastri ambientali.

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