I mulini a vento della Superlega Europea
La Superlega esiste di fatto già. Basta osservare come si sia concentrato negli anni il "valore" del calcio europeo
Uno dei punti cardini dell’analisi marxista è definire il comunismo «il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente», ribaltando così la credenza che siano le idee a intervenire sulla realtà per modificarla. Riportato nell’analisi economica e finanziaria del pallone, questo concetto è utile per ribadire che ogni discorso sulla Superlega Europea, che ritorna ciclicamente un paio di volte all’anno, è pura retorica. E distoglie dal vero nemico. La Superlega esiste già. Lo conferma lo stato di cose materiale del presente.
Se due settimane fa analizzando i movimenti del calciomercato dello scorso anno avevamo visto che in Inghilterra sono stati spesi 2,2 miliardi di dollari – quasi quanto Italia (673 milioni, Spagna (592) Francia (545) e Germania (538) messe insieme – a leggere l’ultima edizione della Football Money League pubblicata dallo Sports Business Group di Deloitte il risultato è ancora più evidente: la Premier League è già la Superlega Europea.
Delle prime 20 squadre europee per fatturato ben 11, più della metà, militano in Premier League. Nelle prime 10, dove non c’è nessuna squadra italiana, sono addirittura 6. A Manchester City, Liverpool, Manchester United, Chelsea, Tottenham e Arsenal fanno compagnia solo Real Madrid e Barcellona – i due colossi della Liga, campionato che dominano anche grazie al loro statuto speciale di associazioni senza scopo di lucro (sic!) – e due club che giocano in campionati dove esistono solo loro: Paris Saint-Germain (8 campionati vinti sugli ultimi 10) e Bayern Monaco (10 su 10).
La Juventus, nonostante i 9 scudetti consecutivi (8 campionati vinti sugli ultimi 10, come il Psg) è undicesima. Ma quello che fa ancora più impressione è che due grandi storiche come Inter (14ma) e Milan (16ma), che insieme hanno vinto 38 scudetti e 10 Champions League, più che guardare alle prime dieci si debbano difendere dall’assalto di squadre che non vincono il campionato da un secolo (Newcastle), decine di anni (Leeds e Everton), che hanno vinto il loro primo titolo per sbaglio qualche anno fa (Leicester) o che non lo hanno proprio mai vinto (West Ham).
Questo non per dire che chi ha vinto di più nel passato meriti qualcosa oggi, tutt’altro. Ma solo per fotografare la situazione attuale. Ovvero, stiamo assistendo a una caduta tendenziale del valore, sempre per parafrasare Marx, di tutto quello che non è calcio inglese. O di tutto quello che non è già un calcio che poco o nulla ha che fare con i campionati nazionali. Vedi Real, Barça, Bayern e Psg: nulla c’entrano con le squadre con cui si allenano nei rispettivi campionati. E non servono analisi marxiste per ritenere che non tutto quello che esiste sia bello. Anzi, spesso è vero il contrario, e per questo l’esistente va cambiato.
Quindi non si tratta certo di fare i complimenti alla Premier League. Al di là delle inchieste sul Manchester City, non è quello il punto. Il fatto è che i (materialissimi) fondi finanziari d’investimento, che non a caso per motivi fiscali hanno cominciato proprio dal calcio inglese, stanno cambiando le regole del pallone e la sua stessa struttura. Ora sono ovunque, anche dentro le federazioni nazionali e internazionali. Vedi la Fifa e gli ultimi Mondiali in Qatar. Se questa struttura non piace, invece di combattere i futuri mulini a vento della Superlega, meglio prendere atto dello stato di cose presente. E nel caso intervenire per modificarlo.