Perché stiamo smettendo di generare benessere?

Per generare benessere non bastano casi virtuosi e sporadici. Serve un cambio di paradigma. La finanza etica aiuta ma serve il ruolo pubblico

L'autentico benessere è collettivo, non individuale © wildpixel/iStockphoto

Cos’è il benessere? Non è una domanda con una risposta semplice, sicuramente è una domanda a cui si può rispondere in molti modi. Ad esempio, cambia molto se l’approccio è individuale (il mio benessere) oppure collettivo (il benessere di una comunità o del pianeta). Nel secondo caso a livello internazionale si parla sempre più di prosperità. Anche nella definizione della responsabilità di impresa, che risale al 1970, si va sostituendo “profitto” con “prosperità” (People Planet Prosperity).

La confusione tra crescita dei consumi e benessere

Però possiamo intuire che, se l’etimologia delle parole ha un senso, l’idea consumistica del benessere è fuorviante. La crescita indefinita dei consumi tutt’al più può riguardare il “benavere”. Quindi un primo punto di rottura tra benessere individuale e delle comunità è proprio nella confusione (voluta) tra crescita dei consumi e benessere.

Nel suo libro Prosperity without Growth del 2017, Tim Jackson esplora cosa significa prosperità per le comunità e come l’economia e la finanza dovrebbero cambiare per raggiungerla meglio. Oggi è chiaro che la prosperità non può essere misurata in base ai dati finanziari o alla crescita dei consumi. La prosperità è oggi collegata al benessere nella società, a un clima stabile, una biodiversità ben conservata, una natura sana e rigogliosa, alla conservazione delle risorse per le generazioni future. Possiamo disaccoppiare prosperità e crescita? Secondo Jackson sì.

banner festivalori

Generare e misurare il benessere: a che punto siamo

In questo percorso non siamo all’anno zero. Sappiamo misurare la prosperità: possiamo migliorare ancora ma ormai è chiaro a tutti, anche nelle istituzioni internazionali, che il Pil (prodotto interno lordo) è solo uno dei parametri. Anche in Italia da anni abbiamo il Bes, l’indicatore di benessere equo e sostenibile.

Sappiamo che contrastare seriamente i cambiamenti climatici impone delle scelte drastiche per abbandonare le energie fossili. Sappiamo che un approccio esclusivamente economico alla prosperità si scontra con enormi contraddizioni e disuguaglianze mondiali, come ha mostrato Piketty nel suo famoso libro del 2014, Il capitale nel XXI secolo. Sappiamo anche che esistono problemi normativi e strutturali che allontanano le risorse finanziare dall’economia reale favorendo l’ipertrofia dei mercati finanziari.

Gli stessi Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), essendo oramai declinati non solo per i Paesi in via di sviluppo ma per il mondo intero, implicitamente ammettono un fallimento della capacità dell’economia di autoregolarsi per affrontare e risolvere le crisi globali che si presentano. Wolfgang Sachs per questo suggerisce di chiamarli Obiettivi di sopravvivenza sostenibile (Sustainable Survival Goals), proprio a sottolineare che riguardano la riduzione dei danni che l’attuale sistema economico sta causando.

Serve un cambio di paradigma in economia e finanza

Abbiamo quindi bisogno di un cambio di paradigma in economia e finanza, ma non abbiamo il coraggio di affrontarlo. Questo perché non sembra possibile mettere in discussione due aspetti fondanti del sistema economico: la spinta alla massimizzazione del profitto individuale e l’imperativo della crescita. Non sembra possibile che possa esistere un sistema economico capace di dare prosperità e progresso senza questi presupposti. Quindi tutte le esperienze innovative in campo economico rischiano costantemente di essere relegate in una nicchia. O, nel migliore dei casi, di essere indicate al mercato come lo standard migliore verso cui indirizzarsi… volontariamente, senza che sia il sistema a cambiare.

Abbiamo “quote di mercato”, a volte crescenti altre no, per l’agricoltura biologica, il commercio equo, la produzione di energie rinnovabili, le imprese sociali, i prodotti di finanza sostenibile, le produzioni locali… Ma non è neanche lontanamente all’orizzonte che queste esperienze possano essere spunto per cambiare il sistema.

Anche la finanza sostenibile, oggi fortemente promossa in Europa, è comunque ridotta alla definizione di prodotti finanziari da vendere a scaffale. Con l’obiettivo (irrealistico) di un cambiamento volontario del mercato e senza mettere in discussione il resto delle attività finanziarie.

rinnovabili crisi climatica
Dare incentivi alle fonti rinnovabili è utile, ma serve un cambiamento di sistema per affrontare la crisi climatica e garantire il benessere delle future generazioni © Andreas Gucklhorn/Unsplash

Cosa ci insegna la finanza etica e perché occorre superare l’esaltazione dell’interesse egoistico

Da questo punto di vista, pur non presentando una nuova visione macroeconomica, si possono trovare alcune indicazioni potenti nelle esperienze della finanza etica (gli operatori che orientano tutte le loro attività in questo segmento, come Banca Etica).

Due su tutte: in finanza etica si limita il campo di azione economica e si gestiscono scelte utili alla prosperità in modo professionale, misurando gli impatti di ciò che viene finanziato. Due semplici spunti che cambiano il modo di intendere il mercato e di essere imprenditori. Se adottate maggiormente, potrebbero veramente determinare un cambiamento culturale e concreto.

Però il punto a mio avviso più cruciale da affrontare è quello dell’esaltazione dell’interesse individuale. Una criticità che neanche la finanza etica evidenzia esplicitamente. Alla radice del nostro sistema economico vi è la promozione positiva dell’interesse egoistico personale. Alla base di una prosperità efficiente non può che esserci la solidarietà. È una contrapposizione drammatica che ci fa capire come la revisione del nostro sistema economico debba essere molto profonda.

Pur non avendo chiaro come risolvere questa contraddizione, alcune scelte potrebbero essere fatte: valorizzare e incentivare le esperienze di economia e finanza per la prosperità. Disincentivare e limitare le attività economiche e finanziarie con impatti negativi. E, soprattutto, riconoscere che non ha senso chiedere alla finanza privata di risolvere problemi globali. Per gestire il limite occorre ripensare la finanza pubblica e il ruolo pubblico nella regolamentazione dei mercati. Un tema oggi assente dalle agende politiche, ma imprescindibile.


Ugo Biggeri è co-fondatore di Banca Etica, di cui è stato presidente. Fino al 2023 è stato presidente di Etica Sgr. Insegna all’università di Firenze.