Trattato sulla plastica: falliscono i negoziati a Ginevra

La conferenza ONU di Ginevra fallisce: nessun accordo sul trattato per ridurre produzione e inquinamento da plastica. I negoziati riprenderanno in futuro

Antonio Piemontese
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Antonio Piemontese
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La conferenza di Ginevra sulla plastica è naufragata. Doveva essere l’occasione per adottare un trattato globale vincolante sulla materia, ma i volti stanchi e le mani serrate a coprire gli occhi dei delegati esausti al Palais des Nations sono l’immagine del fallimento di un meeting poco coperto dai media, nonostante l’importanza della posta in gioco, e che ha mostrato quanto economia e tutela dell’ambiente non possano, oggi, procedere disgiunti.

La seconda parte della quinta sessione dell’International negotiating committee on plastic pollution delle Nazioni unite se ne va, così, in soffitta senza conseguire il risultato atteso. Non è affare da poco. Il processo, cominciato nel 2022, aveva visto andare in scena ben altre quattro sessioni, l’ultima a dicembre dello scorso anno a Busan (Corea del Sud). Niente di fatto, allora come oggi. E adesso ci si aggiorna a data e luogo da destinarsi. Vediamo meglio. 

Un problema globale sottovalutato

Duemilaseicento delegati provenienti da 183 Stati, oltre mille osservatori raccolti in più di quattrocento tra ong e gruppi di rappresentanza, dagli indigeni ai lobbisti delle fonti fossili. Questi i numeri dell’appuntamento svizzero che si è tenuto nella città di Giovanni Calvino. Cifre che impallidiscono al confronto di quelle delle Cop del clima (a Dubai nel 2023 si sono sfiorati i centomila accrediti, la media è sessantamila). E forse questo è il primo segno che il problema della plastica non è cresciuto, nell’arena mediatica, come avrebbe meritato e meriterebbe. 

I dieci giorni di negoziati, dal 5 al 15 agosto, dovevano portare l’assemblea organizzata sotto l’egida del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) a sviluppare un testo in grado di fare da ombrello a tutte le politiche future sul tema.

La produzione di plastica cresce senza sosta dagli anni Cinquanta

La base è la dichiarazione di Punta del Este, nel 2022, in cui i Paesi si impegnavano a trovare un accordo entro il 2024. I dati, del resto, parlano chiaro: dagli anni Cinquanta del secolo scorso la produzione di plastica è aumentata di duecento volte fino a raggiungere i 460 milioni di tonnellate l’anno (fonte: Ocse). Senza cambiamenti e un accordo globale, si stima che possa salire del 70% entro il 2040. 

Ma la questione non si riduce solo a cosa finisce in discarica. «Siamo tutti abituati a vedere immagini dell’invasione di rifiuti di plastica che ricoprono fiumi e mari nel Sud globale», annotava Greenpeace nel rapporto “Every breath you take”, uscito poche settimane fa. Ma ci sono anche le microplastiche (invisibili, e trovate negli stomaci di pesci, mammiferi terrestri ed esseri umani); e, avverte la ong, non vanno sottovalutate le sostanze tossiche nocive usate nella produzione. 

Non solo: plastica significa petrolio. Il 99% si produce a partire dal prezioso liquido nascosto sottoterra. E, in un mondo che sta progressivamente abbandonando l’oro nero come combustibile d’elezione, gli Stati che detengono buona parte delle riserve mondiali (e sul greggio basano il proprio benessere) puntano proprio sulla plastica per continuare a valorizzare la  risorsa. Facile immaginare che non intendano rinunciarvi in mancanza di solide contropartite. 

Gli schieramenti in campo: la High Ambition Coalition

Quanto detto può aiutare a capire il contesto in cui i colloqui si sono mossi. Ma scendiamo nello specifico di quanto accaduto a Ginevra nei giorni scorsi. 

Come a ogni conferenza internazionale, si negozia sulla base di gruppi coagulati attorno a interessi comuni. Il primo e più numeroso è la cosiddetta High ambition coalition, guidata da Ruanda e Norvegia. Tre gli obiettivi strategici: innanzitutto il punto chiave, ridurre i consumi e soprattutto la produzione di plastica portandoli a livelli sostenibili; in secondo luogo, rendere possibile un’economia circolare della plastica in grado di proteggere ambiente e salute umana (e il riferimento all’uomo non è cosa da poco, dal momento che allarga di molto il perimetro di azione); infine, costruire una filiera della gestione e del riciclo ecocompatibili.

Di questa variegata coalizione fanno parte, tra gli altri, Unione europea, Francia, Germania, Canada, Svezia, Giappone, Regno Unito, Corea del Sud, Canada, Perù, Panama, Australia, Nigeria, Ucraina, Micronesia. Non l’Italia, coinvolta nella filiera del packaging. Il gruppo fa notare che solo circa il 10% della plastica oggi viene riciclata, mentre il 14% finisce dritta negli inceneritori e il restante 76% va in discarica o addirittura viene dispersa nell’ambiente. Da notare la presenza, nella compagine, degli Emirati Arabi Uniti: rilevante perché molti degli altri petrolstati del globo sono, invece, riuniti in un altro consesso, quello dei cosiddetti Like minded countries

I Paesi contrari a limiti sulla plastica

Questa seconda, molto più ridotta compagine negoziale è guidata dall’Arabia Saudita e comprende Kuwait, Iran, Iraq, India, Malesia, Russia, Marocco, Cuba, Uganda, Kazakistan: l’idea è principalmente quella di concentrarsi sul migliorare la gestione e il riciclo della plastica, senza toccare, però, la produzione. L’argomento chiave è la sovranità nella gestione delle proprie risorse nazionali, con riferimento al petrolio, che si traduce in un no deciso a trattati vincolanti verso tutti. Si parla, inoltre, anche di responsabilità comuni e differenziate da calcolare su base storica: chi ha inquinato di più in passato deve cominciare a dare l’esempio, gli altri seguiranno. 

In mezzo c’è una serie di Paesi la cui posizione non è così netta, a cominciare dagli Stati Uniti, con l’amministrazione Trump che, anche in questo caso, ha rivisto le posizioni più aperte di Biden. C’è la Cina, sommersa dalla plastica (che fino a poco fa importava  dall’estero per smaltirla nelle proprie discariche, come mostrato nel toccante documentario Plastic China), ma che non perde occasione per ricordare come il problema sia complesso, pensando agli interessi in gioco. E il  Brasile, che dal canto suo (assieme a un gruppo di Paesi caraibici e latino americani, il cosiddetto Grulac, Group of Latin America and the Caribbean Countries) è aperto a implementare restrizioni alla produzione se si implementano anche strumenti appropriati di phase out e just transition. Brasilia supporta un approccio integrato che include finanza, costruzione di impianti, assistenza tecnica e cooperazione tecnologica. 

I nodi sul tavolo: produzione, riciclo e finanziamenti

L’opposizione tra limiti alla produzione e accento sul riciclo non è l’unico terreno di scontro. Sul tavolo ci sono anche il bando alle sostanze chimiche più pericolose impiegate nelle lavorazioni e l’istituzione di un meccanismo finanziario per guidare la transizione: ma bisogna stabilire chi ci mette i soldi, quanti, e con che condizionalità. Tenere conto delle differenti situazioni di partenza (just transition) è la richiesta dei Paesi che si stanno avviando sulla via per lo sviluppo: perché chi oggi gode di un certo benessere storicamente è passato attraverso lunghe fasi di normative ambientali lasse o inesistenti. 

Meritano una menzione gli attori economici, presenti in veste di osservatori, con i propri lobbisti schierati nei corridoi: c’è un’associazione più radicale che comprende alcune aziende nel settore oil and gas (International council of chemical associations, Icca) che si oppone alla presenza di  restrizioni commerciali nel trattato e punta a ridurre l’inquinamento senza tagliare la produzione; e, dall’altro lato, un’associazione più progressista che punta al riuso e a una progettazione in grado di rendere le  plastiche riciclabili by design. Tra i membri di quest’ultima realtà, Pepsi, Walmart, Ikea. Pare che i lobbisti dell’economia, presi tutti assieme, costituissero il gruppo di delegati più nutrito presente a Ginevra: non è una novità, e non sorprende, dati gli interessi in gioco. Quello che va richiesto, però, è trasparenza, badge che indichino chiaramente le appartenenze, e una dichiarazione sulla posizione dell’azienda in materia, in maniera da non sfociare nel solito greenwashing. 

Le discussioni tra compromessi e veti

Coi delegati divisi in gruppi di lavoro, ad avviare le discussioni sono stati – come sempre –  i negoziatori, i cosiddetti sherpa. La paura di non farcela è normale la prima settimana, così come la speranza di concludere in bellezza nelle fasi finali, con il deus ex machina rappresentato dalla calata dei decisori politici. 

Nei primi giorni, la domanda è sempre la stessa: meglio un accordo al ribasso basato su un minimo comune denominatore oppure nessuna intesa, sperando in tempi migliori? La prima strada è quella scelta dalle Cop del clima, che qualche risultato nei decenni lo hanno raggiunto, ma anche quella percorsa di solito dai movimenti sindacali; la seconda è più nelle corde degli attivisti. 

Anche in Svizzera si sperava in un segnale positivo, ma col passare dei giorni la complessità del testo negoziale non è diminuita. Anzi: i documenti che giravano tra i delegati non riuscivano a ridurre il numero di parentesi quadre, elemento grafico che racchiude le opzioni sul tavolo: chi le ha contate parla di 1.500. Un testo del genere è praticamente illeggibile per chiunque, men che meno approvabile, tanto che esistono software appositi per semplificarlo. Nelle sale ci si è accapigliati su tutto, dagli avverbi agli aggettivi, e spesso in maniera capziosa: la tattica negoziale dei Like minded countries sarebbe stata, viene riferito, sin dall’inizio quella di diluire all’infinito le discussioni, al fine di chiudere la conferenza con un nulla di fatto.

Due bozze di compromesso presentate dalla presidenza nelle ultime ore non sono servite a ottenere la luce verde. E così, nella mattinata del 15 agosto, si è dovuto dichiarare forfait, aggiornandosi a data da destinarsi. 

Come leggere il fallimento di Ginevra

Come valutare quanto accaduto a Ginevra? Sicuramente il rinvio non rispecchia l’urgenza del problema della plastica. Ma nel 2025 è impensabile slegare le ragioni dell’economia da quelle dell’ambiente, e questo merita una riflessione. Il baricentro del mondo non è più in Occidente. Nuove realtà stanno trovando  la forza di imporsi:  compromessi veri non sono facili da raggiungere perché richiedono sacrifici reali, che in qualche caso riguardano anche le ambizioni di potenza. I tempi, del resto, sono quelli che sono. 

Ma c’è un altro punto. A essere in crisi, e non da oggi, è lo stesso meccanismo del consensus, che regola le assemblee internazionali di questo tipo: non si vota a maggioranza, ma l’accordo passa solo in mancanza di opposizioni evidenti. In pratica, la luce verde arriva solo se nessuno si alza dalla sedia e si oppone platealmente. Quella del consensus è la strada che il mondo ha trovato negli anni scorsi per raggiungere compromessi ecumenici, ma si sta rivelando limitante di fronte a questioni che richiedono una risposta immediata. Di riforma si parla da tempo e da più parti; il punto è che proprio questo meccanismo ha condotto a risultati importanti (per esempio sulla questione del buco nell’ozono). Rinunciarvi potrebbe offrire la scusa che i fatalisti del disimpegno aspettano per chiamarsi fuori da tutto. 

Quali soluzioni per il trattato sulla plastica?

La soluzione, se c’è, non è dietro l’angolo. Una coalizione di volenterosi in grado di dare l’esempio, in questo senso, potrebbe essere la strada giusta. A Ginevra è stata proposta da più parti. Ma rinunciare tout court all’ambizione di un’azione coordinata sarebbe probabilmente sbagliato, e poco lungimirante. È difficile cambiare in pochi anni un modello di sviluppo che affonda le radici nei secoli. Meglio aspettare con fiducia che cambi la congiuntura. E, nel frattempo, continuare il lavoro ai fianchi. Anche a livello locale, di associazionismo, e mediatico. La copertura della stampa per la conferenza elvetica è stata minima, ma il ruolo dell’opinione pubblica è fondamentale per spingere i politici ad agire. C’è da sperare che il sesto tentativo sia quello buono. Per non rischiare che il trattato sulla plastica diventi una barzelletta. 

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