Perché il modello di Big Pharma non funziona
Il vaccino per il Covid ha aperto uno scontro geopolitico. Con il modello Big Pharma gli interessi economici prevalgono sulla salute. Serve un'azienda farmaceutica pubblica
Il modello di business di Big Pharma, basato sulla massimizzazione dei profitti, sulla ricerca biologica delegata alle start-up, sul privilegiare le cure rispetto ai vaccini, rappresenta da sempre un problema. Sociale, sanitario, economico ed etico. Ma, in una fase come quella attuale, assume i contorni della potenziale tragedia. Le aziende, non è una novità, preferiscono lavorare sulle terapie. Meglio ancora su terapie per malattie croniche. Se si avessero dubbi, a riguardo, basta riavvolgere il nastro della vicenda dell’AIDS.
Per Big Pharma meglio evitare l’arrivo dei vaccini: il caso dell’HIV
Per tale malattia gli investimenti sulla ricerca per un vaccino sono sempre stati minimi. Tanto che l’UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite sull’HIV, qualche anno fa in un comunicato durissimo mise Big Pharma di fronte alle proprie responsabilità, accusandola di non investire nella ricerca sul vaccino per un puro calcolo d’interesse. Le persone infettate dal virus sarebbero state costrette ad assumere per tutta la vita le terapie prodotte dalle stesse aziende multinazionali. Così, la ricerca sul vaccino ha potuto contare solo sul (poco) denaro proveniente da Stati o fondazioni. La ragione è semplice: per Big Pharma – e per l’intero indotto sanitario – evitare l’arrivo dei vaccini significa garantirsi entrate programmabili, su parecchi anni, da mettere a bilancio. Delimitando al contempo la popolazione di riferimento: quella dei Paesi ricchi, gli unici in grado di pagare quelle cure.
Creare un’azienda farmaceutica pubblica…
Allo stesso modo, alcuni anni fa le istituzioni europee avevano chiesto di potenziare la ricerca per fronteggiare potenziali pandemie. Senza ricevere però alcuna risposta dalle multinazionali. La domanda che ne discende è perciò: quali strumenti hanno, oggi, gli Stati per orientare la ricerca e i settori su cui essa si concentra? Ebbene, la realtà è che non ne hanno assolutamente nessuno. È per questo che occorre porsi l’obiettivo di cambiare paradigma. E l’unico modo per farlo è creare un’azienda farmaceutica pubblica su scala europea.
… per orientare la ricerca verso la tutela della salute (di tutti)
Un simile organismo garantirebbe brevetti pubblici per tutti. Ma, soprattutto, orienterebbe la ricerca verso la tutela della salute nel suo complesso. Privilegiando la prevenzione (inclusi i vaccini) rispetto alle cure (i farmaci). Senza dimenticare che potrebbe lavorare anche su patologie che colpiscono un numero limitato di pazienti (cioè con un mercato potenziale insufficiente agli occhi delle industrie private) o che si concentrano in fasce di popolazione povere (non in grado perciò di pagare).
In questo senso, la pandemia attuale ha messo in discussione il paradigma della medicina degli ultimi 50 anni, secondo il quale l’aumento dell’aspettativa di vita dipende quasi esclusivamente dallo sviluppo di nuovi medicinali, mentre la prevenzione è ridotta ai minimi termini e gli equilibri tra la natura e gli esseri viventi sono ignorati. In futuro dovremo affrontare sempre più agenti infettivi figli di un sistema di sviluppo insostenibile e che arrivano a noi tramite zoonosi. Serve perciò soprattutto una medicina attenta alla salute collettiva e preventiva, più che orientata quasi unicamente alla cura.
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Pubblico e privato: nella medicina due approcci opposti
Il problema è che la logica di Big Pharma va nella direzione opposta. D’altra parte, quando le aziende private intervengono nella salute, hanno successo se crescono i malati e le malattie. Quando è il pubblico ad intervenire, ha successo se crescono la salute e il benessere. Perché diminuiscono cure, ricoveri, consulti medici. E le casse pubbliche, di conseguenza, risparmiano. Sono due approcci inconciliabili, diametralmente opposti l’uno all’altro.
Uno scontro geopolitico: dove sono le ragioni sanitarie e dove quelle politiche?
Al contempo, il vaccino per il Covid-19 ci sta mostrando uno scontro geopolitico gigantesco, fonte di grande angoscia. Quando il mondo occidentale sceglie i vaccini americani o quello anglo-svedese, e rifiuta quello russo o quello cinese, è difficilissimo distinguere le ragioni sanitarie e scientifiche da quelle politiche. Il caso dell’Argentina è emblematico: è uno dei cinque Paesi in cui è stato sperimentato il vaccino Pfizer/BioNTech. Ed è qui che l’azienda americana vuole costruire un mega-impianto per produrre vaccini per l’America Latina. Ma poi il governo di Buenos Aires ha dovuto comprare e somministrare alla popolazione il vaccino russo, lo Sputnik V, per ragioni economiche. Lo stesso che Mosca vende all’Ungheria di Orban, che ha così rotto il patto dei 27 Paesi membri dell’Ue che si erano impegnati a negoziare congiuntamente con le case farmaceutiche. Cosa che, d’altra parte, ha fatto anche la Germania.
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Vaccini come armi geopolitiche
L’impressione è che tutti – Stati Uniti, Russia, Cina – puntino ad utilizzare i vaccini come armi geopolitiche. Che assumono alternativamente i contorni di strumenti adatti per aumentarei profitti, oppure utili come “contrappeso” nella questione-Navalny, o ancora perfetti per penetrare nel territorio africano. Occasioni troppo ghiotte per essere perse. Così, si assiste all’emergere di un nazionalismo sanitario. È il caso di Donald Trump che ha pre-acquistato tutta la produzione del farmaco remdesivir, un farmaco che allora sembrava utile per curare le fasi avanzate del Covid-19. Della paventata “gestione interna” del vaccino italiano ReiThera, se e quando arriverà. Dell’accaparramento di dosi da parte di un pugno di nazioni ricche.
L’OMS e le Ong hanno cercato di contrastare tutto ciò con l’iniziativa Covax. Ma anche questa, per ora, non sembra aperta a vaccini non occidentali. Soltanto il futuro ci dirà se la scelta si basa su reali ragioni scientifiche. Quesito che, se ricerca, sviluppo e produzione fossero assegnati ad un organismo pubblico, non dovremmo neanche porci.
Anche per questo con la campagna/raccolta di firme Non profit on pandemic con la quale chiediamo l’immediata moratoria sui brevetti e il ricorso alle licenze obbligatorie, non smetteremo di pretendere una sanità che non faccia profitto ma l’interesse dell’umanità.
Vittorio Agnoletto dal 2020 è responsabile scientifico dell’Osservatorio Coronavirus e membro del comitato promotore europeo, coordinatore del comitato italiano, per la Petizione Europea Diritto alla Cura – Nessun profitto sulla pandemia. È membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica, di Costituzione Beni Comuni, del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale, della sezione europea del PHM – People’s Health Movement, dell’esecutivo del Forum Mondiale della Salute. Insegna Globalizzazione e Politiche della Salute nel corso di laurea in “Scienze Sociali della Globalizzazione” a Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano. Lavora come medico del lavoro in alcune aziende e nelle commissioni sull’invalidità dell’INPS. Conduce 37e2, la trasmissione sulla salute di Radio Popolare.