Le società di private equity mangiano il mercato immobiliare statunitense
Le società di private equity si accaparrano i complessi residenziali nelle grandi città americane. E gli affitti si impennano
Qual è la priorità di una famiglia che compra casa? Viverci, innanzitutto. Magari pianificando di apportare qualche miglioria nel tempo per lasciarla in eredità ai figli, oppure rivenderla a un prezzo vantaggioso. Poi c’è chi la mette in affitto per incassare una piccola rendita da reinvestire nelle tasse universitarie dei figli o nel pagamento del mutuo. Se a comprare quella casa è un fondo, invece? In tal caso è un investimento come un altro e, in quanto tale, deve portare i suoi frutti fin dal primo istante. Le persone che ci vivono, in quelle case, rivestono un’importanza secondaria. Questo è ciò che sta accadendo in modo sempre più evidente nel mercato immobiliare statunitense. Dove, ormai, le società di private equity fanno il bello e il cattivo tempo.
Lo strapotere dei fondi di private equity
I numeri parlano chiaro. Su tutte le compravendite di immobili residenziali concluse nel 2021 nelle 40 maggiori aree metropolitane statunitensi, una su sette ha avuto come acquirente un investitore. Con punte del 25% ad Atlanta e Charlotte (nel 2015 la percentuale era pari rispettivamente al 12% e all’11%). È quanto emerge dai dati della società di intermediazione immobiliare Redfin. Il Washington Post fa notare che gli investitori hanno fatto shopping soprattutto nei quartieri a maggioranza afroamericana, dove è più facile accaparrarsi immobili a costi stracciati. Per poi rimetterli in affitto, alzando i prezzi e drogando il mercato.
La generica categoria “investitori” comprende realtà molto diverse, dai privati che hanno accantonato un discreto patrimonio fino ad aziende locali e fondi. A fare la parte del leone, però, sono appunto i fondi di private equity. Cioè quelli che investono in società non quotate ad alto potenziale di sviluppo, salvo poi disinvestire dopo qualche anno e incamerare i guadagni. Come Blackstone, un colosso che gestisce asset pari a 881 miliardi di dollari. Non contento di essere il maggiore proprietario di immobili commerciali nel mondo, si sta tuffando anche sul residenziale. A febbraio ha annunciato l’acquisizione per 6 miliardi di dollari di Preferred Apartment Communities, proprietaria di 44 complessi plurifamiliari e circa 12mila unità immobiliari fra Georgia, Tennessee, North Carolina e Florida.
Una società di private equity come padrona di casa
A confermare quest’analisi è un lungo approfondimento pubblicato da ProPublica. Prendiamo i 35 più grandi proprietari di edifici multifamiliari negli Usa: quelli finanziati attraverso private equity sono la maggioranza, per un totale di circa un milione di appartamenti. Ed è una stima molto al ribasso, alcuni grandi nomi che sfuggono alle rilevazioni di settore. Blackstone, per citarne uno.
A guardare le leggi del libero mercato, non ci sarebbe nulla di male. Gli inquilini, però, non sono dello stesso parere. Perché, pur di ricavare profitti immediati da simili investimenti immobiliari, i proprietari aumentano da un giorno all’altro gli affitti, sforbiciano i costi (sacrificando pulizie, manutenzione e sicurezza) e sfrattano senza appello gli abitanti al primo ritardo nei pagamenti. Ci sono anche società che, appena prendono possesso dei complessi residenziali, sostituiscono immediatamente le famiglie che ci abitano con nuovi inquilini disposti a pagare di più.
Scelte di business intessute a doppio filo con le dinamiche inflazionistiche in corso. Perché le società di private equity investono negli immobili residenziali per compensare la pressione dell’inflazione, come hanno dichiarato pubblicamente i vertici di Blackstone. Ma gli affitti negli Stati Uniti, ormai, crescono a un ritmo che è due o tre volte rispetto a quello medio dei beni di consumo. A dicembre sono arrivati a una media di 1.877 dollari, con un balzo in avanti del 14,1% anno su anno. Così facendo, accelerano l’inflazione stessa.
Ma cosa succede alle famiglie che non riescono più a permetterseli? Nella migliore delle ipotesi, si trasferiscono fuori città. Nella peggiore, una sistemazione non la trovano più. Alcune ricerche testimoniano che, quando il costo medio dell’affitto supera il 32% del reddito medio di un territorio, la presenza di senzatetto aumenta.
Se la semipubblica Freddie Mac è il braccio destro degli speculatori
L’inchiesta di ProPublica accende i riflettori su un altro soggetto che, dietro le quinte, ha spinto la scalata dei fondi di private equity. Si chiama Freddie Mac, un nome che i contribuenti americani ricordano bene. Al pari della “sorella” Fannie Mae, è un’agenzia privata ma sostenuta dallo Stato, istituita con l’obiettivo di ampliare la platea dei proprietari di case. Come? Acquistando i mutui immobiliari dalle banche, impacchettandoli e rivendendoli agli investitori sotto forma di titoli. Un iter che ha un nome, cartolarizzazione, e che di fatto garantisce i finanziamenti permettendo alle banche di erogarne altri.
Con la crisi dei mutui subprime, nel 2008, il meccanismo si è inceppato e ha costretto l’amministrazione a stelle e strisce a intervenire di tasca propria per salvare le due agenzie, sborsando 191 miliardi di dollari (poi regolarmente ripagati).
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Sui venti più grandi finanziamenti supportati da Freddie Mac per l’acquisto di grandi complessi immobiliari da parte di un singolo mutuatario, nell’85% dei casi era coinvolta una società di private equity. Tutti (tranne uno) sono stati siglati dopo il 2015. Quando, con i tassi di interesse stracciati, i fondi di private equity sono andati a caccia dei prestiti garantiti dall’agenzia per comprare appartamenti in massa. Tipicamente Freddie Mac non impone paletti sull’ammontare degli affitti, né sulle forme di tutela degli inquilini. Niente male, per una società il cui motto è «rendiamo possibile la casa».