Dalle banche 5.500 miliardi di dollari per spingerci verso la catastrofe climatica
Le grandi banche vantano scelte ecologiche e piani per la "net zero". Ma in 7 anni hanno concesso 5.500 miliardi di dollari alle fossili
550 famiglie in Mozambico cacciate dalle proprie case per far spazio alle infrastrutture per lo sfruttamento del gas e ricollocate in un nuovo insediamento lontano dalle tradizionali fonti di sostentamento. Un territorio sulle coste della Louisiana, abitato prevalentemente da latini e afroamericani, che a decenni di inquinamento dell’industria petrolchimica si vede ora aggiungere un nuovo terminal per il GNL. Intere regioni della Nigeria dove, a causa delle attività estrattive, tumori ai reni e ai polmoni sono ormai la norma.
Sono solo alcune delle storie raccontate in Banking on Climate Chaos. Sette ong – Rainforest Action Network, Indigenous Environmental Network, BankTrack, Oil Change International, Reclaim Finance, Sierra Club, Urgewald – hanno curato questo corposo report. Il cui focus non è però su chi le infrastrutture come quelle sopra citate le costruisce, ma più a monte. Banking on Climate Chaos va alla ricerca di chi, tra le 60 banche più grandi al mondo, finanzia opere come queste. E i risultati sono tutto fuorché incoraggianti.
I numeri: 5.500 miliardi al fossile in sette anni
5.500 miliardi di dollari è la cifra da tenere a mente. A tanto ammontano i finanziamenti che dal 2016 al 2022 gli istituti di credito hanno concesso al settore dei combustibili fossili. Un dato non sorprendente – i report degli anni passati si aggiravano su questo stesso ordine di grandezza – ma comunque notevole. Corrisponde a più del doppio del PIL di un Paese del G7 come l’Italia.
La data di inizio delle rilevazioni, il 2016, è (non a caso) immediatamente successiva al raggiungimento dell’Accordo di Parigi, siglato al termine della Cop 21 nella capitale francese nel dicembre dell’anno precedente. Il documento impegna il mondo intero a limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, di qui alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. È dunque da quel momento che ci si attendeva un cambiamento di rotta drastico da parte dei governi di tutto il mondo, così come di ogni soggetto in grado di muovere grandi capitali.
Al contrario, solo nel 2022 i finanziamenti sono stati pari a 673 miliardi di dollari. Di questi, 150 miliardi sono andati alle 100 maggiori compagnie energetiche mondiali. Numeri che segnano un calo: per la prima volta si è scesi al di sotto dei livelli del 2016. Il report invita però alla prudenza. L’invasione russa dell’Ucraina, infatti, ha fatto schizzare in alto i profitti delle grandi aziende energetiche. Le quali, quindi, hanno avuto meno bisogno di ricorrere al credito, e anzi hanno approfittato degli extraprofitti per ripianare parte dei loro debiti. Questo non ha portato ad una diminuzione delle risorse disponibili per l’espansione del settore fossile. E i ricercatori temono che i finanziamenti da parte delle grandi banche tornino a crescere nei prossimi anni.
Chi finanzia il caos climatico?
Banking on Climate Chaos si apre con una lunga classifica. Mostra chi ha più investito in trivelle, gasdotti, cave di carbone, centrali termoelettriche, oleodotti, rigassificatori. La finanza fossile è dominata da un pugno di istituti statunitensi, giapponesi e britannici. Ma anche l’Unione Europea, la Cina e il Canada giocano un ruolo di rilievo.
Se guardiamo ai capitali stanziati dal 2016 ad oggi – quei famosi 5.500 miliardi – la classifica è guidata da un pezzo da novanta della finanza mondiale: la statunitense JP Morgan Chase. Seguono altre tre banche a stelle e strisce: Citigroup, Wells Fargo e Bank of America. Al quinto posto una canadese, la Royal Bank of Canada. Chiudono la classifica due giapponesi, Mitsubishi UFJ Financial Group e Mizuho (rispettivamente sesta e ottava), due britanniche, Barclays e ScotiaBank (rispettivamente settima e nona) ed un’altra statunitense, TD Bank.
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La prima banca con sede nell’Unione Europea è la francese BNP Paribas, in undicesima posizione. La prima cinese, Bank of China, e al diciassettesimo posto. L’Italia compare per due volte. Con Unicredit in trentanovesima posizione, e con Intesa Sanpaolo in quarantacinquesima.
Il report mostra anche i dati relativi al solo 2022. I protagonisti della top ten rimangono sostanzialmente invariati, ma con un importante sorpasso. Per la prima volta Royal Bank of Canada conquista il poco invidiabile primo posto. È lei ad aver finanziato più di tutti il fossile nell’anno appena concluso.
Solo una banca (su sessanta) rispetta gli Accordi di Parigi
Il dato più impressionante, però, prescinde dalle classifiche. Secondo il giudizio dei ricercatori, sulle 60 banche analizzate 59 non sono allineate agli impegni per il contrasto al riscaldamento globale presi a Parigi nel 2015.
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L’unica eccezione è rappresentata da una banca pubblica: la francese La Banque Postale, di proprietà delle poste transalpine. La sua scelta di non finanziare ulteriormente i combustibili fossili venne accolta come «epocale» dagli ecologisti. Banking on Climate Chaos ne conferma la bontà: l’istituto francese è l’unico a non aver finanziato in alcun modo l’energia sporca nel 2022.
15 banche hanno aumentato i flussi finanziari verso il fossile
La Banque Postale rappresenta un esempio per il mondo intero. Ma anche una mosca bianca in un mare nero-petrolio. Per un’istituto che si distingue in positivo, quindici emergono in negativo. Tante sono le banche che nell’anno appena concluso hanno incrementato i finanziamenti a petrolio, gas e carbone.
Peggio di tutti fa la spagnola CaixaBank, con un aumento monstre del 364%. Seguono l’Australia and New Zealand Banking Group Limited e la statunitense PNC. In questa classifica Unicredit è nona, con un aumento del 17,04%.
Notevole anche il ruolo delle francesi BNP Paribas e Crédit Agricole, che hanno aumentato il loro impegno rispettivamente del 21,5% e del 6,3%. Discorso simile per la Cina, che compare in classifica con China CITIC Bank (+31,4%) e Bank of China (+5,5%).
Trucchi e false promesse
Il quadro descritto dal report, insomma, è quello di una finanza legata mani e piedi ad un futuro fossile. Le banche procrastinano di fatto la transizione e continuano ad investire nello status quo. Ma come si concilia questo scenario con gli innumerevoli annunci della stessa finanza globale, che sempre più spesso parla di emissioni nette zero, abbandono dei combustibili fossili, investimenti verdi?
La risposta è da ricercare nell’incompletezza e vaghezza degli impegni presi, e nelle scappatoie che le banche stesse si riservano. Un fenomeno evidente quando si arriva agli impegni net-zero. Sulle 60 banche prese in esame, ben 49 hanno promesso di raggiungere l’equilibrio tra i gas climalteranti emessi e quelli riassorbiti in un range temporale che va dal 2040 al 2060. Ma quasi mai è chiara la road-map per giungere a questo obiettivo. E i modi attraverso i quali calcolare l’impronta di CO2 di un istituto di credito non sono univoci.
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Anche quando le policy si traducono in restrizioni su specifici settori, poi, le stesse banche che hanno approvato queste misure a favor di telecamera lasciano spesso spazio a cavilli ed eccezioni. Ad esempio escludendo dai divieti certe aree geografiche, o concedendo deroghe per ragioni di «sicurezza energetica».
Molti finanziamenti, spiega il report, sono esclusi in partenza dalle restrizioni. Le politiche di diversi istituti si applicano infatti solo ai prestiti. Ma il 36% dei finanziamenti al fossile è erogato sotto forma di sottoscrizioni di obbligazioni o azioni.
Ancora più pervasivo è un altro cavillo individuato dai grandi gruppi. Molte policy di esclusione riguardano solo i finanziamenti a progetti. I quali, però, rappresentano una minima parte della finanza fossile. Le banche, invece di finanziare il progetto, possono infatti concedere senza vincoli prestiti alle aziende estrattive nel loro insieme. Aggirando così gli obblighi che loro stesse si sono imposte.
Il caos settore per settore
È anche grazie a questi escamotage che il fossile continua a contare su ingenti risorse. Il carbone, ad esempio, è il combustibile più inquinante in assoluto, e il primo a dover essere abbandonato. «Lo sta già uccidendo il mercato», disse due anni fa il commissario europeo al Green Deal Frans Tiemmermans. E, in effetti, 47 delle 60 banche analizzate presentano criteri di esclusione del carbone dai loro investimenti. Ma solo in 39 casi questi criteri riguardano anche le aziende nel loro insieme, e non esclusivamente i singoli progetti.
E solo 3 – tra cui la già citata La Banque Postale e l’italiana Unicredit – escludono dal credito chiunque abbia piani di espansione in questo settore. Così le prime trenta aziende attive nell’estrazione di carbone hanno ricevuto 13 miliardi di dollari nel 2022, mentre chi il carbone lo brucia ha potuto comunque contare su finanziamenti pari a 29.5 miliardi. Capitali in larghissima parte cinesi.
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Sono invece 40 le banche che contemplano criteri di esclusione su gas e petrolio. Ma attenzione, anche qui: solo 16 trattano di questi combustibili fossili in generale. Tutte le altre hanno preso impegni relativi solo a settori specifici e particolarmente controversi: fracking, sabbie bituminose, estrazioni in artico, in Amazzonia o nelle acque oceaniche profonde. Grandi esclusi i terminal di gas naturale liquefatto, o GNL. Solo La Banque Postale li esclude tutti totalmente. E i fondi su questo genere di impianti sono raddoppiati nel 2022.
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Proprio sui settori più discussi e inquinanti le politiche di esclusione sembrano avere maggiori effetti. Molte banche hanno eliminato questo genere di attività dalle loro linee di credito. Ma ciò non ha ancora portato all’azzeramento dei fondi. Il settore delle sabbie bituminose, particolarmente presente in nord America, ha ottenuto 21 miliardi di dollari nel 2022, forte del sostegno degli istituti di credito canadesi. 2,9 miliardi sono andati invece alle estrazioni in artico, con capitali in gran parte cinesi.
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Sempre in America settentrionale si concentra il fracking, uno dei più inquinanti metodi di estrazione d’idrocarburi, che ha ricevuto ben 67 miliardi di dollari – fondi concessi in primis da Royal Bank of Canada e JP Morgan. Di provenienza europea, e specificamente francese, sono i capitali destinati alle estrazioni in mare, 34 miliardi nell’anno passato. Cifre che impallidiscono però di fronte a quanto stanziato per le attività in uno degli ecosistemi più fragili del pianeta: la foresta amazzonica. Si parla di 769 miliardi di dollari, con la spagnola Santander come prima finanziatrice.
Sicurezza energetica: il gas non è la soluzione
Nell’edizione di quest’anno gli autori di Banking on Climate Chaos hanno deciso di toccare un tema non direttamente inserito nella questione della finanza fossile, ma centrale nel dibattito pubblico europeo. La sicurezza energetica, e la crisi scaturita dall’invasione russa dell’Ucraina e le successive sanzioni occidentali.
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Il report cita i dati di Global Gas Infrastracture Tracker. Sono 170 i terminal per il gas naturale liquefatto attivi nel mondo, e almeno altrettanti sono proposti o in fase di realizzazione. Un settore in grande crescita, che ha visto come primi finanziatori nel 2022 Mizuho, Morgan Stanley, JP Morgan, ING, Citigroup e Goldman Sachs.
Ma oltre ad essere devastanti per il loro impatto climatico, spiega il report, questi impianti non sono utili nemmeno a risolvere la crisi energetica europea. I tempi di realizzazione, si legge, non scendono mai sotto i tre anni. Molti, per progetti che promettono di aiutare i Paesi europei a superare senza difficoltà il prossimo inverno.
Le 5 proposte di Banking on Climate Chaos
Gli autori del report concludono il loro lavoro con 5 proposte. Le rivolgono alle banche prese in esame, ma sopratutto ai legislatori, perché le impongano a tutto il settore finanziario.
Le ong coinvolte chiedono in primis lo stop immediato ai finanziamenti per l’espansione ulteriore delle attività legate al fossile, siano essi rivolti ai progetti specifici o alle compagnie che li hanno in programma. Poi si chiede l’adozione di obiettivi di decarbonizzazione assoluti, e non parziali o calcolati in modi che permettono di aggirare le emissioni nette zero. Si legge la pretesa di seri piani di transizione anche per i clienti attuali, la protezione dei territori indigeni e dei diritti umani e, infine, un significativo aumento delle risorse finanziarie rivolte alla transizione. Alla quale gli autori aggiungono significativamente l’aggettivo «giusta».
Proposte che difficilmente verranno adottate dai consigli di amministrazione delle grandi banche. E che tuttavia potrebbero diventare realtà con un forte intervento della politica.
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«La costruzione di qualunque macchinario che emetta CO2 è fuori tempo massimo»: parole non di un attivista, ma di Fatih Birol, direttore dell’International Energy Agency – l’ente per l’energia dei Paesi OCSE. Una posizione confermata dall’ultimo rapporto IPCC, il foro scientifico sul riscaaldamento globale delle Nazioni Unite. «Il combustibile fossile presente nei giacimenti già attivi è sufficiente da solo a superare il carbon budget (cioè le emissioni che ancora possiamo disperdere in atmosfera prima di superare la soglia dei +1.5°C, ndr)» scrivono gli scienziati dell’ONU.
Una consapevolezza, stando ai dati di Banking on Climate Chaos, non sufficiente a fermare chi la crisi climatica la alimenta giorno dopo giorno.