Se a salire in cattedra nelle scuole e nelle università è Eni
Greenpeace e ReCommon puntano il dito contro la formazione di Eni in università e scuole pubbliche: «È greenwashing»
«Capillarità nel mondo della formazione, costruzione di una immagine dell’azienda, cooptazione di forza lavoro dentro un sentiment sociale che sia grato e riconoscente». È quanto sostengono Greenpeace Italia e Recommon a proposito di Eni. La considerazione emerge dal report recentemente pubblicato dalle due associazioni, intitolato “Le sei zampe di Eni sulle scuole e le università italiane”.
Nel rapporto, la multinazionale degli idrocarburi è attenzionata su diverse questioni: dalla formazione di docenti e studenti (anche sui cambiamenti climatici) ai tirocini curriculari, dagli accordi con università ai career days, dal finanziamento e acquisto di ricerche e brevetti ai partenariati in master e corsi di laurea. Ecco, se questi sono i campi, Eni gioca sul velluto. La carenza di finanziamenti pubblici a istruzione, università e ricerca è uno dei tumori italiani più vascolarizzati. Così, il Cane a sei zampe offre la propria terapia, ed estende la sua influenza anche su scuole secondarie superiori e atenei pubblici. Ok, ma che c’è di male?
Finanziare formazione per un friendly feeling
Sintetizzando, suona un po’ come I Want You. Una strategia di brand extension, si direbbe, perseguita da diverso tempo da Eni, in questo caso nel settore formazione. Certo non è l’I Want You di dylaniana memoria: lì si trattava di desiderio. Qui ci si ispira all’I Want You di altra pasta, assonante a una vecchia, dolceamara, cooptazione alle armi. Roba da Uncle Sam, insomma, come da illustrazione di James Montgomery Flagg, apparsa nel 1916. A quei tempi, si mietevano così i giovani da condurre in trincea. Oggi, in altro modo, si mietono giovani per adularne la sensibilità ecologista: per poi condizionarla.
Forgiare nuove leve, sembra l’imperativo. Sì, ma come? Innanzitutto, col peso del brand: schiacciante, come solo una multinazionale degli idrocarburi può. Poi con la comunicazione, in grado di influenzare ad ampio raggio. Infine, con piglio aziendalista e cattedratica perentorietà. Traslato su coordinate comunicazione/marketing, l’intento è assicurato. Soprattutto se ad andare in cattedra è Eni, nostrano Zio Sam dei combustibili fossili. Tuttavia, nonostante le docenze da favola, c’è sempre il guastafeste. In questo caso due, pronti a spalancare la porta del racconto reale. Sono Greenpeace e Recommon, già alle prese col gigante petrolifero.
Eni in classe, con conflitti d’interesse e greenwashing
Greenpeace e ReCommon puntano il dito in particolare sulla natura di chi promuove e/o finanzia le attività formative. Così, le due associazioni rilevano i conflitti d’interesse di Eni. In questa cornice, ricordano, ogni classe pubblica si trasforma da presidio culturale, formativo, a strumento del greenwashing.
«L’arte e la scienza – affermano – sono libere e libero ne è l’insegnamento, questo recita la nostra Costituzione. Ma in ambito accademico, quando un’azienda interferisce nell’erogazione della didattica di un corso di laurea, viola lo scopo formativo dell’università. Se i finanziamenti arrivano da realtà che hanno un impatto importante e dannoso sul clima del Pianeta, è ancora più grave. Per questo chiediamo che realtà come Eni la smettano di strumentalizzare scuole e università e stiano fuori da questi pilastri del nostro futuro».
Eni che spiega la crisi climatica: il paradosso in cattedra
Nel report, si mette a fuoco il paradosso per eccellenza. Cioè, «il fatto che Eni Spa si sieda in cattedra, e si presenti come attore adatto a spiegare la crisi climatica». Ciò stride ancor più, costatando la sua opera d’influenza nella didattica e nella ricerca. «I problemi con il Cane a sei zampe – si afferma – non derivano solo dalla sua auto-narrazione per niente convincente rispetto al suo lato green». Quel che aggrava l’ambigua posizione di docenza della multinazionale sta nel fatto che «continua a tacere l’impatto che ha sui territori in cui opera». Ciò nonostante, «propone alle scuole visite guidate nei suoi stabilimenti e PCTO per formare nuove leve».
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Una pratica tutta italiana? «In Italia – spiega Matteo Spicciarelli, della campagna End Fossil – abbiamo subito constatato la distanza fra le nostre università e quelle di molti Paesi esteri». Traduzione: superata un’iniziale resistenza, molti atenei oltreconfine sono corsi ai ripari. In che modo? Mettendo in discussione collaborazioni e dipendenza economica dai soggetti privati responsabili della crisi climatica.
«In Italia – conclude l’esponente di End Fossil – abbiamo invece trovato un muro di gomma. Le nostre università cercano attivamente collaborazioni con le aziende ecocide e così promuovono la loro legittimazione sociale».
Un antidoto? Il kit di mobilitazione di Greenpeace
Proprio per favorire trasparenza sui legami tra Eni e gli atenei, in questa occasione Greenpeace Italia propone un kit di mobilitazione. Innanzitutto, si tratta di un modello già precompilato. Con esso, si forniscono consigli sulle richieste di accesso agli atti. Il fine? Scoprire gli accordi di collaborazione tra atenei e aziende maggiormente responsabili della crisi climatica, come Eni.
Nel suo caso, l’obiettivo è costringerla a rivedere la propria strategia industriale: ridurre del 45% le emissioni entro il 2030, rispetto ai livelli del 2020. Lo ha raccomandato la comunità scientifica internazionale, del resto, per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Sinora, la notizia non sembra pervenuta in cattedra.