Il riciclaggio globale? Si aggira sui 2mila miliardi di dollari
Il money laundering vale dal 2 al 5% del Pil mondiale. La sovrafatturazione prospera. E ora l'attenzione si sposta su e-commerce e criptovalute
Alla fine è sempre una questione di numeri e il riciclaggio globale non fa eccezione. Cifre e ancora cifre. Immense e difficili da determinare. Resta l’ordine di grandezza, quello sì ormai assodato, con i suoi 12 zeri espressi ovviamente in dollari. Anni addietro, lo United Nations Office on Drugs and Crime ipotizzò che l’ammontare di denaro passato ogni anno in lavanderia da criminali ed evasori del Pianeta oscillasse tra gli 800 e i 2mila miliardi di dollari. Come dire, dal 2 al 5% del Pil globale. La cifra non è mai stata aggiornata. Ma questo, forse, è l’ultimo dei problemi.
Globalizzazione e riciclaggio
Negli anni la globalizzazione ha generato almeno due conseguenze: l’aumento dell’interdipendenza tra i grandi operatori finanziari, a partire dalle banche, e la crescita dei volumi di scambio. In questo contesto il riciclaggio ha trovato terreno fertile. Lo evidenziano le inchieste più recenti emerse grazie alla fuga di notizie e documenti riservati, dai Panama Papers fino alla più recente Troika Laundromat. I numeri ufficiali sono già di per sé impressionanti. Ma qui parliamo della punta dell’iceberg.
Capitali in fuga
Il caso Troika Laundromat, nota Leonid Bershidsky, noto commentatore di Bloomberg, rientra a pieno titolo nel più vasto fenomeno del riciclaggio commerciale (trade-based money laundering). Essenzialmente parliamo di trade misinvoicing, sovrafatturazione: in pratica un commercio fantasma utilizzato per nascondere la fuga dei capitali. Secondo la Global Financial Integrity, una Ong di Washington, questo metodo copre da solo almeno il 18% dei volumi di scambio commerciale tra i Paesi emergenti o in via di sviluppo e le economie avanzate. E non senza conseguenze:
«In questo modo la sovrafatturazione si conferma un ostacolo al raggiungimento di una crescita equa e sostenibile per i Paesi in via di sviluppo» si legge nel rapporto.
Analizzando i dati delle Nazioni Unite, che danno origine alla stima più cauta, emerge così una geografia particolarmente variegata. Tra i Paesi caratterizzati dai più elevati deflussi illeciti di denaro in valore assoluto spiccano il Messico (31,5 miliardi di dollari), la Malaysia (22,9 miliardi), la Thailandia (16 miliardi) e il Brasile (12 miliardi). Ma nella lista compaiono anche alcune nazioni europee come Ungheria (7,6 miliardi) e Romania (5,1). Tra le principali destinazioni del riciclaggio commerciale si segnalano invece Polonia (32,3 miliardi) e Indonesia (10,1 miliardi).
Riciclaggio digitale
Il problema del riciclaggio è che sembra capace di evolversi di pari passo con la tecnologia e l’innovazione stessa degli scambi globali. Non stupisce, di conseguenza, che negli ultimi anni una certa attenzione si sia concentrata sul cosiddetto transaction laundering, il riciclaggio condotto nel circuito delle carte di credito.
Secondo Ron Teicher, fondatore della società di sicurezza informatica EverCompliant, questo genere di riciclaggio condotte nelle operazioni online muoverebbe capitali per 200 miliardi di dollari soltanto negli USA. Il 3% della cifra alimenterebbe inoltre mercati di beni e servizi illegali gestiti da 335mila operatori non registrati. La crescita del commercio online renderebbe il fenomeno ancora più preoccupante.
Nel 2017 l’e-commerce globale ha raggiunto un fatturato di 2,3 trilioni di dollari con una crescita del 24,8% rispetto al 2016. Nel 2021, sostiene la società di analisi eMarketer, potrebbe sfiorare i 4.900 miliardi di biglietti verdi.
Criptovalute. L’ultima frontiera
L’ultimo allarme, per ora, arriva dal mondo delle criptovalute. Monete digitali, bitcoin et similia, per capirci. Ma anche valute “immaginarie”, materiale da videogame che prospera però in un mercato reale. La recente vicenda Fortnite è un monito per i regolatori: nei comparti non regolamentati, il riciclaggio trova uno spazio insospettabile.
Le criptovalute sono tuttora circondate da un alone di mistero. Lo dimostra la carenza dei dati sulle lavanderie virtuali. Ma i segnali sono comunque preoccupanti. Nell’aprile 2017, ad esempio, le autorità giapponesi hanno imposto agli operatori delle piattaforme di scambio di denunciare le transazioni sospette condotte con le monete virtuali. Alla fine dell’anno la conta delle segnalazioni si è fermata a 669 casi. Nel 2018, ha fatto sapere la polizia nipponica, le denunce sono state più di settemila. Oltre dieci volte tanto. Una goccia o poco più, con ogni probabilità, nel mare magnum del mercato globale.