Più debiti, meno investimenti. Sale in borsa la febbre da buyback
Buyback da record nel 2019: il riacquisto delle azioni dell’indice S&P 500 sfiorerà i mille miliardi. Pochi investimenti, molto debito. E non solo negli USA
Manager e investitori di borsa possono esultare: il buyback, l’operazione di riacquisto dei propri titoli da parte delle imprese quotate, è più vivo che mai.
A undici anni dal crack Lehman si compra e si ricompra con dovizia di capitali, e poco importa – come sottolinea al Financial Times Howard Silverblatt, senior index analyst presso S&P Dow Jones Indices – che si tratti in fin dei conti di «una gratificazione di breve periodo». I timori di un mercato narcisista e sempre più addicted, nel senso di drogato e non solo in termini monetari, non frenano il ritmo di questa corsa alla risalita artificiale dei prezzi. Troppo forte – spiega ancora Silverblatt – la pressione degli investitori istituzionali. Il divario tra dividendi e riacquisti (a favore di questi ultimi ovviamente) viaggia nuovamente ai livelli pre crisi. Perché, dunque, rinunciare a facili guadagni?
Buyback da record: quasi mille miliardi di dollari nel 2019
Andiamo con ordine. Le cifre, innanzitutto, sono da primato: nell’ultimo trimestre 2018, scrive ancora il Financial Times, le compagnie dell’indice S&P 500 hanno speso 223 miliardi di dollari per riacquistare le proprie azioni. Nei primi tre mesi del 2019 la cifra è scesa a 205 miliardi ma a questo ritmo, sottolinea ancora il quotidiano britannico, l’anno in corso potrebbe chiudersi con un nuovo record.
Quest’anno, rileva Bank of America Merrill Lync, ripresa da Il Sole 24 Ore, le compagnie USA spenderanno in buyback 823 miliardi di dollari; Goldman Sachs, da parte sua, ha alzato la stima a 940, il 13% in più rispetto al 2018. Insomma, quasi un trilione di dollari di riacquisti destinati a produrre un rialzo dei prezzi. Ma anche, forse, a impattare negativamente sulla crescita e sulla produttività.
Meno soldi per gli investimenti
Se le cifre saranno confermate, nota infatti il quotidiano della Confindustria, per il secondo anno consecutivo le società a stelle e strisce spenderanno più soldi per il buyback che per gli investimenti. Il rapporto registrato nell’ultimo biennio si attesterebbe così a 1,14 a 1, contro lo 0,6 a 1 (60 centesimi spesi in riacquisto per ogni singolo dollaro di investimenti) dei 19 anni precedenti. Ma siamo sicuri che la scelta sia conveniente?
Nel periodo compreso tra l’elezione di Donald Trump e i primi mesi del 2018, notava lo scorso anno Goldman Sachs, le operazioni di buyback condotte dalle maggiori compagnie quotate hanno contribuito a meno di un decimo del rialzo complessivo sperimentato nel periodo dall’indice S&P 500: 2 punti percentuali sui 24 totali. Le aziende che hanno speso di più nelle attività di ricerca e sviluppo, come Kohl’s, Intel e Qualcomm sosteneva la banca citando una selezione delle compagnie in portafoglio, hanno visto il valore dei loro titoli crescere mediamente del 42%
Da Trump una spinta alle vecchie abitudini
Il riferimento a Trump non è casuale. Alla fine del 2017, la Casa Bianca è riuscita a far approvare un maxi taglio delle tasse sui profitti d’impresa – l’aliquota è scesa dal 35% al 21% – generando un risparmio da 1.500 miliardi per le compagnie private. «Il taglio record – ricorda la CNBC – aveva alimentato la speranza che le aziende si tenessero alla larga da quelle operazioni di buyback che avevano contribuito a creare la più longeva ondata rialzista nella storia di Wall Street, avviando finalmente maggiori investimenti in attrezzature e nuovo personale».
Le grandi imprese, soprattutto quelle del settore tecnologico, hanno continuato invece a ricomprare le proprie azioni dimostrando così di non aver perso le vecchie abitudini. Negli ultimi 10 anni, le corporation dell’indice S&P 500 hanno speso in tal senso 4,7 trilioni di dollari, con le TOP 20 responsabili di quasi un quarto della cifra. Apple ha investito in buyback circa 260 miliardi di dollari; la concorrente Microsoft quasi 120.
Le aziende fanno debito per finanziare le operazioni di Buyback
L’aspetto forse più interessante degli ultimi tempi è però il sempre più frequente ricorso alll’indebitamento. In un mondo di tassi bassi, nulli o addirittura negativi, ricorrere alle emissioni obbligazionarie per racimolare le risorse necessarie al buyback può essere molto conveniente.
Uno studio di Yardeni Research, ripreso dalla rivista Fortune, sostiene che il 56% del volume complessivo del riacquisto titoli nel 2018 sia stato finanziato a debito. Una tendenza che potrebbe essere riconfermata in futuro se è vero, come sostiene Fortune, che le imprese americane stanno sperimentando un calo degli utili. Un trend, quest’ultimo, che determina a sua volta una riduzione delle riserve di liquidità da investire sui mercati finanziari.
Boom cinese, ascesa europea
Attenzione però: il buyback non riguarda solo Wall Street. Nei primi sette mesi dell’anno, osserva il Financial Times citando una stima della società di ricerca Bernstein, il valore delle operazioni di riacquisto in borsa delle società quotate di Europa occidentale, Giappone e delle più avanzate economie asiatiche avrebbe raggiunto i 248 miliardi di dollari. Il doppio della cifra registrata nel medesimo periodo dell’anno precedente.
Ma il vero botto lo ha fatto il mercato cinese, che pur viaggiando ancora su valori assoluti piuttosto bassi registra tassi di crescita a dir poco impressionanti. Nel 2018, il buyback dei titoli denominati in valuta locale ha coinvolto 785 aziende, oltre un quinto delle quotate, con un volume complessivo di 53,4 miliardi di yuan (7,5 miliardi di dollari al cambio attuale) con una crescita annuale del 575%. Le stime per quest’anno, riferisce il quotidiano China Daily, sono molto variabili. Le più conservative prefigurano operazioni per 63 miliardi; ma c’è chi ha ipotizzato un volume quasi quattro volte superiore.