Recessione, «Non aspettatevi altri investimenti da Berlino»

Timo Wollmershäuser (IFO Institut): «la Germania ha già investito abbastanza in infrastrutture. Piuttosto giù le tasse alle imprese»

Emanuele Isonio
La sede del Bundestag in Germania © photosvit/iStockPhoto
Emanuele Isonio
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Alla fine di settembre, molto probabilmente, il PIL tedesco calerà per il secondo trimestre consecutivo e la Germania entrerà ufficialmente in recessione. La locomotiva d’Europa frena e potrebbe trascinare in una lunga fase di stagnazione buona parte dei Paesi del continente, per i quali Berlino è il primo partner commerciale. A partire dall’Italia.

Quali sono i motivi della frenata? E come potrebbe salvarsi l’economia tedesca? Valori lo ha chiesto al prof. Timo Wollmershäuser, responsabile della ricerca e delle previsioni economiche dell’Ifo, l’istituto di ricerche economiche più prestigioso della Germania.

Prof. Wollmershäuser, la Germania è un passo dalla recessione. Un fulmine a ciel sereno?

In realtà è da mesi che il nostro istituto rileva un peggioramento dell’indice sul clima aziendale (che si basa su interviste alle imprese, ndr), non solo per quanto riguarda l’industria ma anche per altri settori, come il commercio, i servizi o l’edilizia.

Se poi passiamo dalle percezioni ai dati reali, quelli sulla produzione industriale ci dicono che, limitatamente all’industria, il Paese è in recessione già da dodici mesi. E non è un dato da poco, perché in Germania l’industria genera il 25% del prodotto interno lordo: una percentuale molto alta rispetto alla media UE, pari al 17%. Ora ci sono anche segnali su una possibile fine del miracolo occupazionale: da quattro mesi il numero dei disoccupati è tornato a salire in termini assoluti. Un trend che non si vedeva dal 2013, in piena crisi dell’euro.

Nel secondo trimestre dell’anno è sceso anche il prodotto interno lordo complessivo…

Sì, dello 0,1%, perché i problemi dell’industria si sono riversati anche negli altri settori, addirittura nell’edilizia, che in Germania è in crescita dal 2010 e ora si trova in una fase di boom per la prima volta dal 1994, dopo la riunificazione. Tutti gli indicatori economici (ordini, clima aziendale, ecc.) puntano verso un unico risultato, e cioè un calo molto probabile del PIL anche nel terzo trimestre. Tecnicamente, dopo due trimestri consecutivi con il segno negativo, il Paese entrerebbe a tutti gli effetti in recessione.

Per quali motivi?

Per almeno due motivi principali, il primo dei quali è evidente ormai a tutti: da un anno e mezzo l’economia globale sta transitando verso un nuovo ordine economico di cui abbiamo sottovalutato il perimetro e l’intensità.

Nelle nostre stime, per esempio, abbiamo sempre escluso la possibilità che la guerra commerciale tra USA e Cina entrasse in una fase acuta, cosa che poi invece si è verificata. Ed eravamo partiti dal presupposto che si verificasse un’uscita soft della Gran Bretagna dall’Unione Europea, cosa che ormai non è più realistico pensare.

Ci troviamo in una fase di enorme insicurezza. Almeno dal 2017 le imprese hanno iniziato a posticipare gli investimenti. L’industria meccanica, che ha un ruolo di primo piano in Germania, è tra i settori più colpiti da questo attendismo.

E il settore automobilistico?

Quello è il secondo motivo dell’attuale crisi tedesca. L’intero settore si trova nel mezzo di una transizione tecnologica. Da un giorno all’altro i motori a benzina e diesel hanno cominciato ad essere considerati obsoleti. Il mondo si aspetta un imminente passaggio alle auto elettriche. E quindi cala la domanda di motori tradizionali e si posticipano gli acquisti. Però le auto elettriche non sono ancora pronte, non c’è ancora alcun modello per la masse dei consumatori, sono troppo care. Il settore automobilistico pesa però per il 5% del PIL tedesco e per il 20% sulla produzione industriale complessiva.

Qui però ci sono precise responsabilità tedesche…

Certamente. Sia da parte della politica sia da parte dell’industria. La politica, perché non ha creato le condizioni per una transizione tecnologica verso l’elettrico. E l’industria perché ha sperato fino all’ultimo che la politica proteggesse il settore da un cambiamento epocale che era ormai da tempo nell’aria.

Era chiaro che sarebbero arrivati i divieti di circolazione per i diesel nelle città ed era altrettanto chiaro che sarebbero stati imposti limiti sulle emissioni di CO2. Però non si è agito con tempestività, sperando in un salvacondotto politico, che non è arrivato e non poteva arrivare, visto che la pressione sul settore è globale e uno Stato solo, alla fine, può fare ben poco.

Si è detto spesso che la Germania, ossessionata dal pareggio di bilancio, investe troppo poco. È vero? E un rilancio degli investimenti pubblici potrebbe aiutare il Paese a uscire dall’attuale crisi?

Lo Stato tedesco è tornato a investire in infrastrutture, in particolare negli ultimi due anni, solo che in gran parte ha colmato i buchi degli anni precedenti e quindi è vero che servono ulteriori investimenti ma prima bisognava compensare la carenza di investimenti passata. C’è poi un problema serio che al momento rallenta gli effetti positivi, in termini di crescita economica, degli investimenti infrastrutturali come strade, ponti, edifici scolastici, edilizia sociale, ferrovie, aeroporti, ecc.

E quale sarebbe?

L’edilizia, come ho detto prima, è in una fase di boom eccezionale e il settore è letteralmente saturo. Il governo federale trasferisce risorse ai comuni ma questi non riescono a spenderle perché non trovano le imprese edili che possano realizzare i progetti, anche perché le imprese preferiscono ottenere lavori da committenti privati.

La spesa pubblica in infrastrutture è in forte crescita, in termini reali, da quattro anni (+4,2% nel 2015, +4,6% nel 2016, +3,7% nel 2017, +4,8% nel 2018), mentre prima del 2015 era scesa per tre anni consecutivi. Il problema è che ora non riesce a crescere di più. Anzi, se si aumentano i trasferimenti pubblici in questo settore si rischia di far salire solo i prezzi, anche quelli dei materiali, che sono già alti.

Lo Stato potrebbe però intervenire in altri modi, per esempio impiegando nuovi insegnanti, poliziotti, ecc.

Sì, lì non si tratta però di investimenti ma di spese per i consumi finali delle pubbliche amministrazioni. Che sono pure cresciute, moderatamente, negli ultimi anni. Nel 2000 rappresentavano in totale il 19% del PIL, mentre oggi siamo al 20%. Lo Stato ha speso di più per la crisi dei rifugiati e per un aumento delle spese militari. Sono aumentate anche le pensioni.

Negli ultimi due anni lo Stato ha contribuito in modo significativo alla crescita economica utilizzando i surplus di bilancio generati. Nel 2018 il surplus (differenza positiva tra entrate e spese di uno Stato, ndr) è stato pari all’1,7% del PIL, 58 miliardi di euro in termini assoluti: il più alto della storia della Germania unita, grazie ai tassi negativi a cui oggi lo Stato si indebita e a un record nelle entrate fiscali.

Dall’altra parte, però, grazie anche a un aumento della spesa pubblica, l’avanzo delle partite correnti (differenza positiva tra valore delle esportazioni e delle importazioni, ndr) è sceso per tre anni consecutivi dopo il record del 2015 (8,5% del PIL). Nel 2018 si attestato al 7,3% (una percentuale comunque ancora molto al di sopra del limite del 6% previsto dall’Unione Europea, ndr).

Il fatto che l’economia tedesca sia, per certi versi, drogata dalle esportazioni non rappresenta un problema?

È vero, il sistema tedesco è sbilanciato sulle esportazioni, in particolare sul settore automobilistico e i macchinari, però non lo vedo come un problema. Dipende dalle fasi del ciclo economico.

Per esempio, nel 2012-2013 la Germania non è stata toccata dalla crisi dell’Eurozona perché sono stati i Paesi emergenti a comprare i nostri prodotti ai quali è riconosciuto un livello di qualità molto elevato. Nella fase attuale la Germania sta soffrendo, come soffrono però buona parte degli altri Paesi, in quanto parte del nuovo ordine economico mondiale, al quale stiamo arrivando attraverso una lunga fase di incertezza.

L’enorme surplus suggerisce però che ci siano i margini per aumentare ulteriormente i consumi pubblici…

Sì, però non sono convinto che un ulteriore aumento della spesa per consumi porterebbe a effetti significativi in termini di crescita economica. In questa fase sarebbe molto più sensato ridurre la tassazione sulle imprese. Non solo l’imposta sulle società, ma anche quella sul reddito, visto che in Germania, come in Italia, moltissime imprese sono società di persone. C’è urgentemente bisogno di una riforma fiscale complessiva.

In Francia qualcosa si è mosso con la graduale riduzione dell’imposta sulle società dal 33% al 25% tra il 2018 e il 2022, che sta avendo effetti importanti sulla crescita economica. Lo stesso si può dire degli interventi di Trump negli Stati Uniti, dove la stessa imposta è stata tagliata dal 35% al 21% a partire dal 1° gennaio 2018. In Germania si potrebbe cominciare eliminando con l’abolire del tutto la tassa di solidarietà. Dal 2021 non dovrà più essere pagata dal 90% dei contribuenti. Ma continuerà a pesare su buona parte delle imprese.

Quindi la ricetta per uscire dall’attuale crisi è tagliare le tasse alle imprese?

Sì ma non solo. Nel frattempo il governo tedesco dovrà continuare a fare pressione sugli Stati Uniti perché si allenti la guerra commerciale con la Cina. Ma qui entriamo nel campo della diplomazia.