Basta carbone, ecco le assicurazioni che hanno fatto la svolta
Rischi troppo elevati: il gigante statunitense Chubb è l'ultimo a scegliere di non assicurare più centrali a carbone. Scelta analoga per una ventina di altre società
Quello di Chubb dell’estate 2019 è stato un annuncio diffuso senza troppa enfasi. Ma la fuga dal carbone del maggior gruppo assicurativo commerciale degli Stati Uniti (in un mercato da oltre 12 miliardi di dollari di premi diretti) non può che fare notizia. E di sicuro ha fatto rumore nelle stanze delle principali compagnie di assicurazioni di tutto il mondo, o almeno di quelle che ancora non hanno preso posizione sul terreno del disinvestimento dai combustibili fossili.
Il primo luglio, infatti, Chubb ha annunciato la sua nuova politica per affrontare il cambiamento climatico. O meglio, una politica relativa alla sottoscrizione di contratti e investimenti relativi al carbone per la quale «la società non sosterrà più la costruzione e l’esercizio di nuove centrali a carbone o nuovi rischi per le aziende che generano più del 30% dei loro ricavi dalle miniere di carbone o dalla produzione di energia dal carbone».
Parole definitive, che non lasciano spazio a fraintendimenti sulle intenzioni, quindi, e che proseguono nel dettare una linea anche sugli accordi già stipulati. Chubb precisa che «La copertura assicurativa per i rischi esistenti nelle centrali a carbone che superano questa soglia sarà gradualmente eliminata entro il 2022 e per i servizi di pubblica utilità a partire dal 2022».
Chubb: siamo responsabili come “guardiani della Terra”
Ma c’è di più. Perché il comunicato della società la cui capogruppo, Chubb Limited, è quotata alla Borsa di New York ed è inclusa nell’indice S&P 500, con attività in 54 Paesi e oltre 30mila persone impiegate, sembra voler superare il proposito di una semplice informazione operativa. Tenta forse di conquistare una sorta di leadership di sostenibilità nel settore assicurativo statunitense. Tanto che, citando il proprio presidente e CEO Evan G. Greenberg, nella nota si legge che:
«Chubb riconosce la realtà dei cambiamenti climatici e il sostanziale impatto delle attività umane sul nostro pianeta. La transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio implica la pianificazione e l’azione di politici, investitori, imprese e cittadini. La politica che stiamo attuando oggi riflette l’impegno di Chubb a fare la nostra parte come guardiano della Terra».
Chubb così si assume un carico di responsabilità e chiama «politici, investitori, imprese e cittadini» alla battaglia climatica, inducendo fautori e detrattori a verificare la sua credibilità con la lente del green washing per gli anni a venire. Ma nel sancire la propria capitolazione alle sempre più pressanti campagne contro il combustibile più dannoso per l’ambiente, la multinazionale getta la palla campo dei suoi concorrenti diretti. Sfida perciò gli altri player multinazionali a fare lo stesso o meglio, a cominciare dalle americane Travelers Companies, Liberty Mutual e AIG, tanto per fare un esempio.
Clima: assicurazioni allerta dal ’73. E Chubb un anno dopo Generali
Il proclama di Chubb si allinea totalmente alle proposizioni di un crescente “fronte Thunberg” mondiale anche tra i grandi operatori commerciali ed economici. Un’indiretta risposta alle resistenze di altri blocchi di potere ben rappresentati, ad esempio, dall’intervento del presidente brasiliano Jair Bolsonaro o dalla presenza controversa di Donald Trump alla recente assemblea generale dell’Onu di New York.
D’altra parte, Chubb non è l’unica grande compagnia del comparto delle assicurazioni a impegnarsi pubblicamente in questa direzione. Occupandosi per natura di gestione del rischio, e basando i propri affari sulla modellizzazione degli scenari catastrofici e la relativa valutazione economico-finanziaria, proprio gli assicuratori sono stati infatti tra i primi ad avvertire della grave minaccia globale portata dal climate change. E sono stati tra i primi anche a metterlo nero su bianco (già nel 2012 Valori se ne occupava), come dimostrano alcune testimonianze risalenti addirittura al 1973.
Del resto nel novembre 2018, quindi diversi mesi prima del comunicato di Chubb, ad una scelta di abbandono delle coperture assicurative per il carbone era già giunta l’italiana Generali, primo grande player finanziario italiano a prendere una decisione del genere. La compagnia con quartier generale a Trieste «ha ufficializzato che non fornirà più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali a carbone, senza alcun tipo di eccezione, e che non accetterà come nuovi clienti società attive nel comparto carbonifero». E ciò è stato possibile dopo anni di pressione da parte di uno schieramento formato dai gruppi ambientalisti e della società civile come Re:common, nonché dall’azionariato critico organizzato di Shareholders for change.
Approfondimento
Colpo di scena. Generali abbandona il carbone
La compagnia ha annunciato che non fornirà più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali a carbone
Le compagnie che stanno dicendo no al carbone
Generali, quindi, e Chubb, sono in conclusione esempi di una tendenza che si sta consolidando, in Europa e negli Stati Uniti. I principali gruppi assicurativi del Pianeta stanno iniziando a lasciare fuori il carbone dal proprio business, sia interrompendo le coperture che gli investimenti finanziari. E a certificarlo, indicando nomi, cognomi e impegni di chi ha intrapreso questo percorso, c’è Unfriend Coal, campagna condotta da una serie di ong che ogni anno stila un rapporto sul tema, e aggiorna costantemente lo stadio di avanzamento delle politiche di abbandono del carbone messe in atto.
Le quali, sia chiaro, hanno innanzitutto l’obbiettivo di salvaguardare i bilanci più che l’ambiente. Secondo una pubblicazione del Swiss Re Institute citato dal report 2018 di Unfriend Coal, a fronte delle perdite economiche globali del 2017 per un valore di 337 miliardi di dollari derivanti da disastri naturali e artificiali come uragani e incendi, quelle assicurate valevano ben 144 miliardi di dollari.
Nel solo 2018 i quattro maggiori gruppi europei (Generali, Allianz, AXA e Zurich) hanno posto limiti alla loro copertura assicurativa per il carbone. E anche Catlin, compagnia tradizionalmente attiva nell’assicurazione del settore energetico, ha bloccato l’erogazione di servizi per progetti connessi al carbone da quando è stata acquisita da AXA. Così, la quota di mercato delle assicurazioni che hanno implementato politiche per limitare il proprio coinvolgimento nel carbone è passata dal 3,1% nel 2016 al 7,3% del 2018.
Una tendenza virtuosa
Si tratta insomma di una tendenza: «Almeno 19 grandi assicuratori hanno disinvestito dal carbone» si legge nel rapporto di Unfriend Coal, pubblicato prima del comunicato di Chubb. «Generali, Lloyd’s, Hannover Re e le francesi AG2R La Mondiale e Groupama hanno annunciato nuove politiche, mentre AXA, Allianz e Munich Re hanno rafforzato le politiche precedenti. Gli asset complessivi coperti da politiche di disinvestimento sono aumentati di valore da 4 trilioni a più di 6 trilioni di dollari, o dal 13% al 20% del patrimonio globale del settore assicurativo».