Big tech, l’oligopolio tecnologico che la politica vuole depotenziare
L'oligopolio dei Big tech è fatto di profitti da capogiro. Spesso a scapito di privacy, tassazione equa e diritti dei lavoratori
Gli occhi del mondo politico occidentale sono puntati sull’oligopolio formato dalle cinque corporation statunitensi che regnano sul mondo di tecnologia e trattamento dei dati: i GAFAM. Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Altrimenti dette le Big tech. Le loro attività producono profitti da capogiro, a volte a scapito di alcune garanzie democratiche fondamentali come privacy, tassazione equa e diritti dei lavoratori. L’obiettivo di arginare il potere oligopolistico in questo settore è più facile a dirsi che a farsi. Il presidente degli Stat Uniti Joe Biden, però, sembra avere un asso nella manica in questo senso. Che risponde al nome di Tim Wu. Assieme alla giovanissima docente Lina Khan, esperti di (dura) regolamentazione antitrust. Le loro nomine fanno prevedere una stagione di lotta col coltello tra i denti tra l’amministrazione di Washington e l’oligopolio delle Big tech.
I GAFAM nel mercato finanziario
I GAFAM, insieme, rappresentano il 27,5% dell’intero Standard & Poor 500. Sono protagonisti di un settore che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 19,36%. A trainare la classifica sono Apple e Microsoft, colossi tech rispettivamente da 2.230 miliardi di dollari e 1.670 miliardi di capitalizzazione, cresciuti nel 2020 dell’84,5% e del 40,41%. Apple è il primo titolo per capitalizzazione nello S&P 500, su cui pesa per il 6,4%, seguito subito dopo da Microsoft, che conta il 5,4% dell’intero mercato. Seguono a ruota le piattaforme di comunicazione Facebook e Google (che, insieme a Netflix, contano per il 5,70% dell’intero indice).
Un innegabile oligopolio, dunque. Ma quali sono gli effetti della presenza di tali colossi sul mercato? Di certo hanno portato ad una straordinaria crescita in Borsa: il valore dei titoli Amazon è aumentato di circa il 2.300% in 10 anni. Fuori dal comune anche i numeri di Apple, +1.116% in dieci anni, mentre Google e Microsoft sono esplose rispettivamente del 496% e del 730%. C’è poi da dire che, senza le Big tech, durante la pandemia il mercato azionario americano avrebbe avuto un trend medio più basso dell’8% rispetto ad oggi.
Il lato oscuro dell’oligopolio tecnologico
Sebbene queste aziende abbiano portato alcuni benefici sociali, soprattutto durante la pandemia, il loro dominio ha un costo. Quello di essere state capaci di abusare delle loro posizione di oligopolio sulla frontiera digitale. Dettando prezzi e regole su commercio, motori di ricerca, pubblicità, servizi di social network e editoria. E niente è passato inosservato ai piani alti della politica americana: in un lungo report del Congresso pubblicato a ottobre 2020 si legge un giudizio d’insieme sui leader del tech statunitense non magnanimo: «Le quattro grandi aziende, da coraggiose startup, si sono ormai trasformate nel genere di oligopolio che per l’ultima volta abbiamo visto nell’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie».
Il report arriva dopo una stagione intensa di scandali che hanno travolto le grandi multinazionali del Big tech. A partire dalle accuse di sfruttamento del lavoro (sottopagato) e a condizioni insostenibili per i dipendenti di Amazon, fino alla questione delle pratiche fiscali opache. Senza dimenticare lo scandalo Facebook – Cambridge Analityca – che ha messo in luce un più vasto e pericoloso contesto nel quale la gestione dei dati personali diventa cruciale per il controllo di dinamiche di altissimo profilo.
Il pressing-antitrust sui GAFAM: con Biden ci saranno azioni concrete?
Due nomine cruciali nella neonata amministrazione Biden inquietano le grandi aziende del digitale. La prima è quella di Tim Wu, consulente del presidente sulle questioni legate alla concorrenza e alla tecnologia. La seconda, è quella di Lina Khan, insediata dalla Casa Bianca alla guida della Ftc, l’agenzia governativa che si occupa di tutela dei consumatori e di privacy. I due hanno in comune tanta competenza e posizioni di netto contrasto verso l’oligopolio GAFAM.
La squadra del presidente
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C’è poi Janet Yellen, la segretaria al Tesoro Usa che punta, già da mesi, alla lotta all’erosione della base imponibile e allo stop alle fughe delle multinazionali nei paradisi fiscali. Il neopresidente sembra quindi intenzionato a intervenire con una stretta dal punto di vista antitrust. Tra i parlamentari democratici circola una bozza di una nuova regolamentazione che potrebbe cambiare radicalmente il modo di operare dei GAFAM, e forse smantellarne l’oligopolio. Dall’altro lato, permane la volontà di portare avanti le trattative per un accordo in seno all’Ocse sulla web tax.
L’oligopolio Big tech è solo made in USA?
Lo scenario internazionale sembra dunque dominato dall’oligopolio GAFAM. Eppure, c’è un grande Paese in cui non solo questi colossi non hanno accesso, ma, molto probabilmente, nel quale nessuno sente la mancanza né di Facebook né di Google: la Cina. Tuttavia, ciò non significa che nella Repubblica Popolare non esistano posizioni di fatto dominanti. Non si chiamano GAFAM, bensì BATX: Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi.
Il primo è il motore di ricerca più diffuso in Cina, l’equivalente quindi di Google. Alibaba opera nel segmento e-commerce ed è la piattaforma più simile ad Amazon presente in Cina. Tencent è l’azienda che, tra le altre cose, ha sviluppato WeChat: piattaforma di instant messaging che unisce al suo interno funzioni per lo shopping, prenotazione di ristoranti, pagamenti digitali e mini-giochi. Uno strumento, in definitiva, molto più evoluto di WhatsApp (di proprietà di Facebook). E i loro giri di affari non hanno niente da invidiare ai colossi della Silicon Valley.
BATX, anche la Cina regolamenta i suoi colossi tecnologici
Ma, come i loro fratelli statunitensi, anche i colossi cinesi non sono al riparo dalla regolamentazione. Pechino ha annunciato la prima modifica della legislazione antitrust dal 2008. La legge, che in precedenza non riguardava i giganti cinesi di internet, dovrebbe ora applicarsi a tutte le società digitali del Paese, questa volta senza eccezioni.
Il potere crescente dei BATX, ma anche di ByteDance, il proprietario dell’applicazione TikTok sembra essere fonte di preoccupazione per le autorità asiatiche, che ora stanno incoraggiando lo sviluppo di nuove start-up. L’obiettivo dichiarato è quello di far posto a strutture più piccole, le cui opportunità nel mercato digitale erano precedentemente limitate. Il progetto di regolamentazione consiste anche nell’applicazione di sanzioni finanziarie nei confronti delle imprese che non rispettano le linee politiche del governo della Repubblica Popolare. Potrebbero essere comminati fino all’equivalente di 7 milioni di dollari di multa per chi si oppone alle regole di comunicazione del Partito Comunista.