Difendere la biodiversità per difendere cibo, acqua, clima e salute
Un focus sulla natura e sulla biodiversità invece che sulle emissioni aumenterebbe la possibilità di raggiungere gli obiettivi climatici
Come il cibo e i sistemi alimentari contribuiscono alla sostenibilità del nostro Pianeta? E al contrario, quale approccio al cibo può essere ritenuto sostenibile? Nel mezzo di queste due domande speculari c’è un’unica risposta: la tutela della biodiversità.
Mettere in pratica azioni e politiche volte a proteggere la natura e ripristinare gli ecosistemi degradati può avere effetti positivi a cascata su diversi altri ambiti, come spiegheremo tra poco.
A febbraio la Cop16 sulla biodiversità a Roma
Proprio di questo si discuterà dal 25 al 27 febbraio quando ci sarà, a Roma, il secondo appuntamento della Cop16 sulla biodiversità. I lavori della Conferenza erano stati interrotti il 1 novembre scorso a Cali, in Colombia. Come per gli altri due appuntamenti sul clima del 2024, la Cop29 di Baku tenutasi sempre a novembre e, il mese successivo, la Cop16 sulla desertificazione di Riad, anche il percorso sulla biodiversità si è concluso con qualche flebile luce e tante ombre.
Obiettivo della Conferenza era implementare il Global Biodiversity Framework, cercando soluzioni per il raggiungimento dell’obiettivo di salvaguardia del 30% del Pianeta e di ripristino del 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030. Anche nella discussione di Cali, come accaduto nelle altre Cop, tanto hanno pesato le divisioni tra Paesi industrializzati ed economie più fragili.
Certo, l’appuntamento in Colombia qualche punto lo ha segnato. Sulla rappresentatività della Convenzione innanzitutto, che ha aperto le porte a rappresentanze dei popoli indigeni e afrodiscendenti. E sull’identificazione di aree marine di importanza ecologica o biologica (EBSA) anche in acque internazionali.
Male invece, ma non è una novità, il capitolo finanza. Quando si tratta di cercare risorse c’è sempre un fuggi fuggi che, in questo caso, è stato letterale. La seduta plenaria per trovare i 200 miliardi di dollari necessari entro il 2030 (e 20 miliardi entro il 2025) è durata dodici ore ed è stata sospesa alle 8 del mattino. I delegati che avevano abbandonato i lavori erano troppi, non c’era più il quorum, non aveva senso continuare a discutere. Né si poteva più approvare un altro documento fondamentale, quello che monitora gli avanzamenti dei vari Paesi rispetto agli impegni assunti.
Le questioni che saranno sul piatto a fine febbraio a Roma riguardano quindi innanzitutto la mobilitazione di risorse e gli strumenti per misurare il livello di raggiungimento dei 23 obiettivi di tutela della biodiversità stabiliti nel 2022 a Montreal, con il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework.
Parlare di biodiversità vuol dire parlare anche di cibo, di acqua, di clima e di salute umana
Tutti gli ambiti sono interconnessi e non è possibile realizzare veri avanzamenti in un settore senza intervenire sugli altri. È quello che sta provando a spiegare al mondo e, soprattutto, ai decisori politici il Gruppo Intergovernativo per la Biodiversità e i Servizi Ecosistemici (Ipbes). I 165 esperti internazionali hanno divulgato il primo studio scientifico sulle interconnessioni tra biodiversità, cibo, acqua, clima e salute umana, il Nexus Assessment. Il documento mostra che le crisi in questi ambiti si influenzano reciprocamente e che affrontarle separatamente comporta molti più costi che benefici. Solo un approccio globale – spiegano – ci farà raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, rispettare l’Accordo di Parigi, flaggare i goal del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework.
Affrontare distruzione degli ecosistemi, insicurezza alimentare, innalzamento delle temperature, deterioramento della salute globale e stress idrico come crisi isolate significa ignorarne le cause. Che invece sono influenzate dalle stesse tendenze socioeconomiche e di sovraconsumo. Quando parliamo di cibo e sostenibilità stiamo parlando anche di crisi climatica, di ripristino degli ecosistemi naturali, di diseguaglianze sociali, di diritti di chi lavora, di agricoltura agroecologica, allevamenti intensivi, eccetera.
La governance di biodiversità, acqua, cibo, salute e clima è frammentata, impegna le istituzioni su agende e obiettivi separati, a volte in conflitto, che portano a un utilizzo inefficiente delle risorse. È una gestione fallimentare perché tutti i fattori interagiscono tra loro causando impatti a cascata.
I legami con il clima
Occuparsi della natura migliora anche il clima. Sembra ovvio dirlo, ma esistono diversi luoghi di discussione, diversi attori decisori e diversi programmi sui due temi che non si incrociano quasi mai. Così, il Nexus Assessment sottolinea come un focus sulla natura migliora le politiche climatiche. Concentrarsi sulla biodiversità invece che sulle emissioni aumenterebbe la possibilità di raggiungere gli obiettivi climatici.
Da questo punto di vista, l’appuntamento di Roma è fondamentale. La biodiversità sta diminuendo del 2-6% per decennio. Conservare e ripristinare le foreste, i suoli degradati, le torbiere e le mangrovie migliorerebbe anche la salute umana, la sicurezza alimentare e idrica e, di conseguenza, avrebbe impatti climatici positivi. Le foreste catturano e filtrano l’acqua: fino al 2005 hanno garantito acqua pulita e accessibile al 75% della popolazione globale. Gli ecosistemi costieri assorbono fino al 50% della CO2.
Riformare governance e finanza
Per frenare il declino della natura, serve riformare i sistemi finanziari e di governance. Serve aumentare i flussi di risorse verso la biodiversità. I Paesi a basso reddito hanno un enorme patrimonio di biodiversità che non possono adeguatamente tutelare perché strozzati dal debito.
Circa la metà del PIL mondiale dipende dalla natura, eppure i sussidi ambientalmente dannosi ad attività inquinanti superano di molto i fondi destinati a proteggere la biodiversità. I costi “esterni” dell’industria fossile sono tra i 10mila e i 25mila milioni di dollari. I sussidi ambientalmente dannosi sono quasi 2mila miliardi. Le attività economiche che danneggiano la natura raggiungono i 5,3mila miliardi di dollari ogni anno. E per proteggere la biodiversità impieghiamo appena circa 200 miliardi di dollari: l’1% del PIL del mondo. Per colmare il divario servirebbero tra i 300 e i mille miliardi.
Sì, ma che c’entra il cibo?
Anche i sistemi alimentari hanno un ruolo. Se si riuscisse a trasformarli in senso virtuoso, l’attuale superficie agricola potrebbe sfamare la popolazione mondiale e portare benefici negli altri quattro ambiti del Nexus.
Come si fa? Con l’agricoltura agroecologica. Usando l’azoto in maniera più efficiente. Riducendo le perdite. Tagliando gli sprechi alimentari. Promuovendo una dieta sostenibile. Le politiche alimentari possono avere un ruolo molto importante nella tutela della biodiversità, ma questo non accade. Se l’aumento della produzione alimentare globale ha portato a un miglioramento della salute pubblica e alla diminuzione della mortalità, soprattutto infantile, ha anche comportato altri problemi come la perdita della biodiversità, la gestione insostenibile delle risorse idriche, la scomparsa della diversità alimentare, l’inquinamento e le emissioni di gas a effetto serra. Ci sono aree del mondo ipernutrite e altre che non hanno sufficiente cibo, la diversità delle colture agricole e delle diete sta scomparendo. I progressi che abbiamo fatto con la salute globale si stanno arrestando anche per questo. Nel 2021 più di 2/5 della popolazione mondiale non potevano permettersi una dieta sana.
Dare protagonismo alle comunità locali
Il 41% della popolazione mondiale vive in aree che hanno subito enormi perdite di biodiversità. I Paesi in via di sviluppo, i piccoli Stati insulari che rischiano di scomparire, i popoli indigeni, stanno pagando il prezzo più alto della connessione tra le diverse crisi.
Il punto di partenza per rispondere ai loro bisogni, secondo gli autori del Nexus Assessment, deve essere la ricerca dell’equità. Proprio i popoli indigeni e, in generale, le comunità locali sono spesso impegnati nella conservazione della biodiversità e nella gestione sostenibile delle risorse. Occorre abbiano un maggiore ruolo nei processi decisionali per valorizzare le pratiche che attuano ogni giorno e i saperi che conservano. È quello che è accaduto in Brasile, dove garantire il diritto di proprietà ai popoli indigeni ha ridotto la deforestazione e aumentato le percentuali di ripristino.