«Dobbiamo tornare a concentrarci sul ruolo politico del cibo»
"Il cibo è politica" di Fabio Ciconte sostiene che non si possano scaricare solo sugli individui le responsabilità della crisi alimentare
L’8 aprile di quest’anno è uscito per Giulio Einaudi Editore “Il cibo è politica“, l’ultimo libro di Fabio Ciconte, giornalista, saggista e direttore di Terra!. Il libro muove da un messaggio centrale molto caro a Valori e più volte ribadito in queste pagine e nella nostra newsletter “Valori in tavola”: le scelte individuali di consumo, o di stile di vita in generale, da sole non sono elementi trasformativi. Detta in altre parole, non possono essere i nostri comportamenti di singole e singoli, per quanto virtuosi, a risolvere questioni complesse come la crisi climatica o quella alimentare.
Siamo partiti da qui per rivolgere tre domande all’autore.
Nelle pagina di “Il cibo è politica” si legge che «il cibo costa troppo e, allo stesso tempo, troppo poco». Come si spiega questo paradosso? E come ricade sulla collettività da un lato, sui vari anelli delle catene del valore dall’altro?
Questo è uno dei più grandi paradossi della nostra epoca: il cibo costa troppo e troppo poco. Tutte e due le affermazioni sono vere. Costa troppo per milioni di persone che non se lo possono permettere – e non mi riferisco solo a chi è in condizioni di povertà assoluta. Si tratta di una condizione che riguarda la vita di moltissimi di noi. Costa troppo poco perché quel costo che noi paghiamo per fare la spesa non riesce a remunerare adeguatamente chi la terra la coltiva – i braccianti – e non riesce a sostenere i costi ambientali.
Il risultato è che le aziende agricole – soprattutto le più piccole – chiudono. E quando non accade ci sono sfruttamento nei campi, inquinamento e un’agricoltura e si deve industrializzare sempre di più. Questo produce una serie di esternalità negative sempre più profonde. È un un grande problema. Sappiamo che il cibo costa troppo ma se costasse il doppio, se noi andassimo al supermercato a fare la spesa e scoprissimo che i prezzi sono raddoppiati, scoppierebbero vere e proprie rivolte.
Lei critica fortemente la retorica dell’azione individuale come soluzione a questioni alimentari e climatiche. Il consumo consapevole è un’illusione? E come si può spostare il focus sulle responsabilità a monte della filiera?
Penso che in questi anni ci siamo concentrati troppo sull’azione individuale a discapito di quella collettiva. Il risultato è che ci siamo ritrovati in un mondo fatto di di frizioni, di dualismi, e l’azione collettiva è un po’ è un po’ scemata. Penso che invece oggi sia necessario concentrarsi sul ruolo politico che ha il cibo e sulle responsabilità politiche che implica. Dobbiamo rivolgerci a imprese, istituzioni, mercati. E poi affiancare a questo anche un’azione individuale, che non deve mai mancare ovviamente. Ma da ciascuno secondo le proprie possibilità.
Viceversa, quello che abbiamo fatto in questi ultimi vent’anni è stato scaricare sulle spalle del singolo consumatore tutte le responsabilità, caricandolo di sensi di colpa. Una strategia in qualche modo anche dei sistemi istituzionali, politici e di mercato per scaricare su di noi una responsabilità che appartiene a loro.
Infatti il libro sostiene che si debba passare dall’azione individuale a quella collettiva e politica per affrontare la crisi alimentare e climatica. Come si fa?
Innanzitutto dobbiamo smettere di considerare noi stessi come dei consumatori. Siamo prima di tutto persone. Dobbiamo ritornare a una partecipazione pubblica, civile. Che in questo periodo non può non tenere insieme tutte le questioni del nostro tempo perché, mentre parliamo, abbiamo Trump che sta portando i dazi al al 30%; abbiamo un genocidio a Gaza; abbiamo una guerra nel cuore dell’Europa; abbiamo conflitti in ogni angolo del mondo; abbiamo un decreto sicurezza che riduce i nostri spazi di libertà; abbiamo una situazione di genere drammatica.
Abbiamo una serie di battaglie su cui concentrarci e dobbiamo avere la forza e la capacità di tenerle tutte tutte insieme. Ne riporto una in particolare: quella del salario. Noi non possiamo pensare di parlare di acquisti consapevoli senza tenere conto del fatto che i nostri salari sono bassissimi. Nel nostro Paese non crescono da trent’anni. Quella per un salario equo e dignitoso per tutte e tutti, per me, è una battaglia essenziale dal punti di vista ecologico. Ed è così dovremmo ragionare. Quello che propongo nel libro, quello che proviamo a fare in questi anni con Terra!, la mia associazione, è un lavoro duplice: tenere insieme la capacità di fare acquisti consapevoli, ma con accanto una battaglia politica che sappia guardare a tutte le tutte le sfide del nostro tempo.
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