«Il riconoscimento Unesco alla cucina italiana non celebra: responsabilizza»
Dalla biodiversità alle mense scolastiche: Andrea Segrè spiega cosa comporta il riconoscimento Unesco alla cucina italiana
Il 10 dicembre scorso l’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Un passaggio storico, che va ben oltre la celebrazione di una tradizione gastronomica famosa nel mondo e chiama in causa cultura, educazione, biodiversità, lavoro e sostenibilità. Che cosa significa davvero questo riconoscimento? Quali responsabilità apre, e quali rischi porta con sé?
Ne abbiamo parlato con Andrea Segrè, una delle voci più autorevoli nel dibattito italiano sul cibo. Presidente di Casa Artusi – il primo centro di cultura gastronomica dedicato alla cucina domestica italiana, nato nel nome di Pellegrino Artusi – Segrè è anche economista, professore universitario, fondatore di Last Minute Market e tra i massimi esperti di lotta allo spreco alimentare.
Cosa significa davvero questo riconoscimento dell’Unesco? È solo simbolico o può produrre cambiamenti concreti?
Il riconoscimento Unesco non è un semplice titolo: è un impegno. Certo, ha una forte valenza simbolica, ma soprattutto produce effetti concreti perché riconosce che la cucina italiana è un patrimonio culturale vivo, fatto di pratiche, saperi, rituali quotidiani che richiedono tutela e trasmissione. Questo può orientare politiche pubbliche, rafforzare l’educazione alimentare, sostenere la biodiversità agricola e rendere più responsabile il nostro modo di produrre, cucinare e consumare cibo. L’Unesco non celebra: responsabilizza.
C’è il rischio che una candidatura nazionale appiattisca la diversità regionale? Come evitare l’omologazione?
Il titolo stesso della candidatura – diversità bioculturale – afferma con chiarezza che il cuore della cucina italiana è la pluralità delle sue espressioni. Non una “cucina italiana” uniforme, ma una costellazione di pratiche che cambiano da regione a regione, spesso da casa a casa. Il riconoscimento serve proprio a valorizzare questa pluralità, non a cancellarla. Il nostro compito è custodire la molteplicità, non trasformarla in un marchio unico e omologato.
Qual è stato il contributo di Casa Artusi sul piano culturale e scientifico?
Casa Artusi è il primo centro di cultura gastronomica dedicato alla cucina domestica italiana. È il luogo che opera nel nome di Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana moderna. Fin dal primo giorno siamo stati tra i promotori della candidatura, contribuendo alla riflessione culturale e alla stesura del dossier scientifico grazie al lavoro decisivo del prof. Massimo Montanari, coordinatore del nostro Comitato Scientifico. In questi anni abbiamo sostenuto la candidatura in Italia e all’estero attraverso conferenze, eventi, contenuti divulgativi e, già nel 2021, con un manifesto sottoscritto da oltre venti associazioni. Il nostro contributo è nel metodo: unire cultura, ricerca e pratica quotidiana.
Come valorizzare agricoltori, allevatori e lavoratori della filiera attraverso questo riconoscimento?
La candidatura si fonda sulla diversità bioculturale e sulla sostenibilità, radici che affondano nel mondo contadino. Questo riconoscimento riporta al centro del dibattito nazionale chi custodisce la biodiversità e produce le materie prime che rendono possibile la nostra cucina. Ora bisogna accompagnare questo riconoscimento con politiche che migliorino le condizioni di lavoro, sostengano le filiere corte e valorizzino i territori rurali. Non c’è cucina senza chi la rende possibile.
Che cosa manca oggi alle filiere agroalimentari per essere davvero sostenibili?
Manca una visione integrata. La sostenibilità deve tenere insieme ambiente, economia e diritti del lavoro. Serve più innovazione nelle pratiche agricole, più trasparenza lungo la filiera, condizioni di lavoro dignitose, riduzione degli sprechi in ogni fase e un maggiore orientamento dei consumatori verso produzioni responsabili. Oggi ognuno fa un pezzo: dobbiamo tenere insieme tutti i pezzi.
Politica e mercato sostengono abbastanza la biodiversità agricola italiana?
La politica ha sostenuto la candidatura e il settore gastronomico ha svolto un ruolo prezioso. Ma la biodiversità richiede continuità di azione: tutela dei paesaggi, sostegno alle aree interne, incentivi ai giovani agricoltori, salvaguardia delle produzioni tipiche e lotta al consumo di suolo. Con il riconoscimento Unesco abbiamo un’opportunità unica per rilanciare i territori che compongono il grande mosaico della cucina italiana. Sta a noi non sprecarla.
La crisi climatica mette sotto pressione le nostre colture. La cucina italiana rischia di diventare un patrimonio “a tempo determinato”?
La crisi climatica è in atto da tempo, inarrestabile. Ma il riconoscimento Unesco può generare consapevolezza e mobilitare azioni concrete: il settore agroalimentare, le istituzioni, i cittadini sono ora chiamati ad affrontare insieme questa sfida. La cucina italiana è nata dall’ingegno e dall’adattamento: oggi deve dimostrare la stessa capacità di resilienza. Il patrimonio non è garantito per sempre: va coltivato.
L’Italia sta ancora educando al cibo?
Non quanto dovrebbe. L’educazione alimentare oggi è frammentaria. Serve riportare il cibo al centro dei percorsi educativi: come cultura, come salute, come competenza civile. Non basta insegnare che cosa mangiare, bisogna insegnare come cucinare, scegliere, non sprecare. Educare al cibo significa formare cittadini più consapevoli.
Cosa dovrebbe cambiare nelle mense scolastiche e nelle politiche pubbliche?
Le mense devono diventare laboratori di educazione alimentare: più stagionalità, più filiere locali, meno alimenti elaborati, più cucina autentica. Le politiche pubbliche devono sostenere acquisti verdi, formazione del personale, programmi contro lo spreco, percorsi educativi continui. Le mense scolastiche sono il luogo dove si costruisce il gusto delle nuove generazioni: non possiamo trattarle come un servizio accessorio.
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Qual è il ruolo delle istituzioni culturali nella protezione e innovazione del patrimonio gastronomico?
Casa Artusi lavora fin da quando è nata in questa direzione. Difendere il patrimonio non significa conservarlo immobile, ma innovare le pratiche mantenendo integra la loro identità. Diffondiamo il metodo artusiano: una cucina fine, di buongusto e di semplicità, attraverso la scuola di cucina, la ricerca, la divulgazione. Le istituzioni culturali devono fare da ponte tra passato e futuro, tra tradizione e innovazione, tra conoscenza e pratica.
Come si concilia il riconoscimento Unesco con il fatto che l’Italia spreca ancora troppo cibo?
Il riconoscimento può e deve spingere il Paese a comportamenti più responsabili. La cucina italiana è nata dal recupero, dall’ingegno, dall’uso integrale degli ingredienti: lo spreco è una negazione della nostra identità gastronomica. Dobbiamo trasformare la consapevolezza in azione: politiche adeguate, educazione, pratiche domestiche più attente.
La cucina italiana non ammette sprechi: li trasforma.
La tradizione può aiutarci a costruire un nuovo modello di sobrietà alimentare?
Assolutamente sì. La tradizione è piena di piatti nati dal recupero: minestre, polpette, frittate, ripieni, zuppe. È un modello di economia domestica intelligente e sostenibile. La sobrietà non è rinuncia: è buon senso. E la cucina italiana è un patrimonio straordinario di buon senso gastronomico.
Se potesse scegliere una sola pratica da tramandare al futuro, quale sarebbe?
La cucina domestica. Non un piatto, ma un luogo: la tavola di casa, la trasmissione dei gesti, l’apprendimento condiviso. È lì che si custodisce davvero la nostra identità gastronomica. Senza cucina domestica, non esiste cucina italiana.
Qual è oggi il rischio più grande per la cucina italiana? E qual è la sua forza più grande?
Il rischio più grande è l’omologazione: la perdita delle differenze, la standardizzazione, la riduzione del nostro patrimonio a un semplice brand globale. La forza più grande è il contrario: la diversità bioculturale, la pluralità dei territori, l’ingegno delle persone comuni, la creatività popolare. È una cucina che vive nelle case, nei mercati, nei territori. Una e molteplice.
Che cosa desidera che questo riconoscimento apra nel Paese?
Spero apra una stagione nuova: più educazione alimentare, più attenzione alle filiere agricole, più tutela dei territori, più dignità per chi lavora il cibo. Vorrei che riportasse il cibo al centro della vita culturale italiana come linguaggio di identità, relazione e sostenibilità. Il riconoscimento Unesco non chiude un percorso: lo inaugura.




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