Una dieta più varia fa bene alla salute e anche all’economia

Il nostro sistema alimentare è iniquo anche perché si impernia su pochissime colture, nelle mani di un club di potenti corporation

Una dieta più varia, che dia spazio alle piccole aziende agricole locali, contribuirebbe anche a rendere più equa l'economia © master2/iStockPhoto

Grano, riso, canna da zucchero, mais, soia, patate, olio di palma, manioca. E ancora, sorgo, miglio, arachidi e patate dolci. Sono le dodici colture che forniscono all’umanità il 61% dell’apporto calorico. Aggiungendo cinque specie animali (bovini, bufali, polli, maiali e capre), si arriva al 75%. Eppure, sono circa 170 le colture alimentari diffuse su vasta scala. 170 sulle circa 7mila che, nella storia, gli esseri umani hanno consumato per sfamarsi. Che una dieta più varia giovi alla salute è un principio ormai noto, ma spesso si perde di vista il fatto che potrebbe far bene anche alla nostra economia. Intaccando lo strapotere di un pugno di grandi corporation e creando opportunità di crescita più eque. È il tema di uno studio pubblicato da Food and energy security.

Le monocolture sembrano più produttive, ma solo nel breve periodo

La diversificazione è un principio cardine di qualsiasi investimento finanziario. Se si punta tutto su un unico asset, si seguono le sue sorti nel bene e nel male. Un portafoglio che comprende titoli, mercati e settori eterogenei, al contrario, sarà più stabile e reggerà meglio anche a futuri shock. Il sistema alimentare funziona più o meno allo stesso modo. Ne abbiamo avuto la prova quando il fungo Fusarium Tropical Race 4 ha invaso le piantagioni di banane, la frutta fresca più esportata del mondo, con un volume di produzione annuo di circa 50 milioni di tonnellate e ricavi per circa 10 miliardi di dollari all’anno. Portando sull’orlo dell’estinzione la varietà Cavendish, la più venduta Oppure, quando una falena chiamata lafigma (Spodoptera frugiperda) ha devastato le piantagioni di mais nell’Africa subsahariana.

D’altra parte, queste sono tutte monocolture. Cioè grandi piantagioni, dedicate a una singola specie vegetale, che forzano i ritmi della natura per incrementare il più possibile la produttività. Salvo poi impoverire ben presto il suolo, perché lo depauperano dei suoi nutrienti senza che ci sia un ricambio, come invece accade se l’agricoltura è più diversificata. Si potrebbe pensare che sia un sacrificio necessario, perché le monocolture forniscono quel cibo che il mercato richiede. Ma anche questa argomentazione non sta in piedi. Perché l’Africa, dove il 20,4% della popolazione soffre la fame, è ricoperta di piantagioni di cacao, caffè e tabacco. Coltivazioni che ingrassano i bilanci delle multinazionali che le commerciano da un capo all’altro del Pianeta, non certo la popolazione.

Il cibo diventa un oligopolio controllato dai grandi nomi della finanza

D’altra parte, ogni singolo essere umano che vive sul pianeta Terra ha bisogno di mangiare. È inevitabile che le corporation si gettino a capofitto su un mercato sterminato e inesauribile. Dietro le loro spalle, i soliti nomi noti della finanza: fondi d’investimento, fondi pensione, società di private equity. Ai loro occhi, il cibo non è un mezzo di sostentamento: è una merce, un asset finanziario come tanti altri. I tempi da rispettare non sono più quelli della natura (che è l’unica a poterlo fornire, quel cibo) bensì quelli delle trimestrali. Gli interessi da soddisfare sono quelli degli azionisti.

Sempre in un’ottica di massimizzazione del profitto, comprare le società più piccole e incrementare senza sosta le proprie quote di mercato è la strada più sicura. Si spiega così la costituzione degli oligopoli. Con quattro aziende che controllano il 44% del mercato globale dei macchinari per l’agricoltura, due che controllano il 40% del mercato dei semi (erano dieci fino a 25 anni fa), quattro che controllano il 62% del comparto dell’agrochimica. Sono dieci i gruppi del food & beverage che producono pressoché qualsiasi cosa si possa acquistare in un supermercato. Questi grandi gruppi, di fatto, hanno nelle proprie mani l’intera filiera di quelle (poche) colture su cui si impernia l’alimentazione globale. Di conseguenza, non vedono alcun vantaggio nella prospettiva di rendere più varia la dieta.

Un modello diverso esiste: agroforestazione e agricoltura rigenerativa

Eppure, un’alternativa esiste. Ed è un’alternativa che può creare valore nel lungo periodo e per tutti, invece di concentrarlo in pochissime mani ed esaurirlo in fretta. Uno studio del 2023, per esempio, indaga i benefici dell’agroforestazione nell’Africa orientale. È quel sistema agricolo che fa coesistere alberi, arbusti, seminativi e pascoli negli stessi terreni. Insomma, l’esatto contrario delle monocolture intensive che occupano enormi appezzamenti con una singola coltura, distruggendo ogni traccia di biodiversità attraverso i fitofarmaci. Oltre a sequestrare molta più CO2, l’agroforestazione contribuisce in maniera decisiva alla sussistenza delle comunità locali che, oltre al cibo, ne ricavano legname, piante medicinali, combustibile, altre materie prime.

Un altro studio si concentra poi sull’agricoltura rigenerativa, cioè quel sistema che prevede di diversificare le colture, piantare alberi, lavorare il terreno il meno possibile, praticare la pacciamatura, conservare e riutilizzare l’acqua. L’obiettivo è quello di ridurre l’erosione del suolo e mantenerlo fertile. Una necessità assoluta in un Continente come l’Africa, in cui quasi la metà delle terre produttive va incontro un grave degrado. È per questo che adottare l’agricoltura rigenerativa su larga scala potrebbe far crescere il prodotto interno lordo (PIL) del Continente di oltre 15 miliardi di dollari all’anno da qui al 2030. Una cifra che sale a 70 miliardi di dollari all’anno nel decennio successivo, cioè un quinto dell’attuale PIL agricolo dell’Africa subsahariana. Così facendo, si potrebbero creare oltre un milione di posti di lavoro a tempo pieno entro il 2030 e quasi 5 milioni entro il 2040.  

Una dieta varia crea opportunità di crescita economica

In sintesi, il sistema agroalimentare globale è un sistema chiuso, con forti barriere all’accesso ai terreni e ai mercati. A regnare sono poche potentissime corporation che tirano le fila di un risicato numero di filiere alimentari facendo tutto il possibile per abbattere i costi e aumentare la quantità, senza badare alle conseguenze di lungo periodo per le persone, l’ambiente e la salute. Il cibo diventa una commodity sulla quale si specula liberamente, noncuranti del fatto che la volatilità dei prezzi affami la popolazione.

Modelli come l’agroforestazione e l’agricoltura rigenerativa, al contrario, prevedono di diversificare le sementi, le tecniche agricole, i sistemi di stoccaggio, distribuzione e trasporto del cibo. Il risultato è innanzitutto una dieta più varia, in cui il cibo è di stagione e prodotto sul territorio. Ma anche un ventaglio più ampio di opportunità per le piccole imprese (agricole e non) che danno lavoro e fanno crescere l’economia su scala locale.