Dopo 10 anni di crisi, investimenti addio e zero risposte
L'ultimo decennio è trascorso in una sconfortante continuità col passato. Uniche novità: il tasso di investimenti pubblici crollato e nessuna soluzione adeguata
La crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007 poteva schiudere una sfida inedita per le istituzioni internazionali e nazionali. Infatti, l’evoluzione del sistema economico, la crescente integrazione dei sistemi produttivi e finanziari intervenuta a partire dagli anni Ottanta, la successiva e ulteriore integrazione dei sistemi finanziari, economici e commerciali, rischiano di trasformare la crisi di un Paese o di una impresa in una crisi sistemica, svuotando l’idea stessa di istituzione statale.
In un mondo in cui domina l’integrazione finanziaria, un qualsiasi shock – che sia nel mercato delle materie prime o dei beni finali, o in un sottoinsieme apparentemente marginale del mercato finanziario – si diffonde molto rapidamente. Ciò avviene proprio perché ha delle immediate ripercussioni sulle relazioni debito-credito che legano tutti gli agenti economici.
Istituzioni del capitale inalterate dal 2008
Pertanto, la metafora della farfalla che muove le ali in un luogo periferico e provoca un danno dall’altra parte del mondo è quanto mai pertinente quando ci riferiamo al capitalismo contemporaneo. Inoltre, sebbene la crisi del 2008 sia più lunga e profonda di quella del Ventinove, le istituzioni del capitale sono rimaste sostanzialmente inalterate con una aggravante: la soluzione dei problemi, caduta del PIL e dell’occupazione, rimane sostanzialmente nazionale.
L’Europa, per esempio, declina la solidità dell’economia come l’esito delle politiche nazionali: «Gli Stati membri devono adottare politiche interne resilienti e dotarsi di una riserva fiscale per affrontare i cicli economici» scrivevano i “5 Presidenti” della Ue nel giugno 2015 (della Commissione Ue, Juncker; del Consiglio Europeo, Tusk; dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, del Parlamento europeo, Schulz e della BCE, Draghi).
Niente di nuovo all’orizzonte
Sebbene il modello di crescita dell’era Reagan e Thatcher (1980-2007) sia esaurito, all’orizzonte non si profila niente di nuovo, se non una bolla speculativa che potrebbe far impallidire quella del 2008. In questo caso vale il monito dell’economista Salvatore Biasco:
«finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi».
Il 15 settembre 2008 fallisce Lehman Brothers e inizia ufficialmente la Grande Recessione in tutti i paesi avanzati. La Storia, dopo 10 anni, sembra la stessa: occorre ripristinare l’equilibrio economico generale per consolidare la crescita. La Storia di questi 10 anni, in realtà, registra un cambiamento delle politiche nazionali e la nascita di un latente sovranismo che hanno modificato la geografia economica e la divisione internazionale del lavoro.
Le politiche di Trump e la conseguente guerra delle monete nel commercio mondiale, la rincorsa delle banche centrali all’oro, la contrazione del ruolo delle banche commerciali come fornitori di credito alle imprese in ragione delle severe regole imposte a livello internazionale ed europeo, sostituite dai fondi – Shadow Banking – che comprano sempre più obbligazioni emesse dalle stesse imprese per un controvalore di 45mila miliardi di dollari suggeriscono che la Storia e le politiche evolvono, mentre l’Europa, vittima delle sue politiche economiche e della sua incapacità nel costruire un orizzonte all’altezza del ruolo assunto dall’euro negli scambi internazionali, manifesta tutta l’inadeguatezza della sua classe dirigente nell’affrontare la cosiddetta stagnazione secolare.
Italia, caso di scuola
Dopo un decennio, alcuni Stati hanno recuperato le posizioni del 2007. Ma lo hanno fatto a spese di altri Paesi: quelli costretti alle politiche di austerità che hanno eroso quel poco di buono che avevano costruito negli anni passati.
Altri Paesi, invece, sono arretrati senza che la politica potesse far molto. L’Italia è un caso di scuola che dovrebbe far riflettere chiunque si incarichi di rilanciare l’economia. Sebbene il nostro Paese abbia bisogno di investimenti e il ministro dell’Economia, Tria sembra intenzionato a rafforzare questa spesa nella Legge di Bilancio, dobbiamo pur indagare cosa serve al Paese e valutare cosa è accaduto in passato.
Il crollo degli investimenti pubblici
La minore crescita del PIL del Paese tra il 1995 e il 2017 rispetto alla media europea –meno 23 punti percentuali – è imputabile ai minori investimenti fissi a partire dal 2008. Ma non dobbiamo dimenticare che, fino a quella data, gli investimenti erano in linea con quelli tedeschi. Rispettivamente 118 Italia e 119 Germania (prendendo come base 100 quelli del 1995).
Sul tema degli investimenti ricordo anche che quelli pubblici sono calati dopo il 2007, ancorché non siano così distanti dalla media europea. Nel 2007 il rapporto investimenti pubblici-Pil dell’area Euro era pari a 3,2%, quello italiana era del 2,9%, mentre la cosiddetta locomotiva tedesca raggiungeva solo l’1,9%.
Dopo 10 anni (2017) l’area euro spende il 2,6%, la Germania il 2,2% e l’Italia il 2%. Sebbene la contrazione degli investimenti pubblici italiani abbia concorso in misura importante nel contenimento della spesa pubblica, questo fenomeno non è circoscrivibile ai confini patri: dal 2009 sono caduti in tutti i Paesi europei. Questa politica pro-ciclica europea spiega in parte la sofferenza delle infrastrutture pubbliche europee e il calo della domanda effettiva aggregata.
Ma quali investimenti servono?
È un modo per ricordare che gli investimenti pubblici sono necessari per invertire la tendenziale caduta del Pil, ma dobbiamo pur interrogarci sull’efficacia e la scelta degli investimenti pubblici. Il governo e l’efficacia di questa spesa deve essere interamente ricostruita sulla base di un piano programmatico. In particolare gli investimenti pubblici dovrebbero rimuovere i vincoli di struttura che comprimono la crescita del reddito e del lavoro.
Francia, Germania, Italia: chi vince, chi perde
Come già ricordato, la Storia economica evolve e muta la divisione internazionale del lavoro (in questo caso europea).
La produzione industriale si è geograficamente concentrata: quella necessaria a soddisfare la domanda aggiuntiva è stata via via soddisfatta sempre più dalla Germania a spese degli altri Paesi manifatturieri.
Hanno concorso tante cause, in primis la despecializzazione del tessuto produttivo nazionale, ma il potere dell’euro-marco e della struttura tedesca ha compromesso un fattore della creazione di lavoro e di reddito. Facendo 100 la produzione del 1999, nel 2017 la produzione francese è pari a 99,5, quella italiana a 88, quella tedesca raggiunge 135.
In altri termini, le politiche di austerità europee hanno consegnato alla locomotiva tedesca ¼ della manifattura europea senza colpo ferire.
L’effetto sull’occupazione è abbastanza importante. Se poco prima della crisi del 2007 il tasso di disoccupazione tedesco era tra i più alti a livello europeo (10,1% nel 2006), rispetto all’8,4% dell’area euro, all’8,8% della Francia e al 6,8% dell’Italia, alla fine del 2017 si inverte la situazione: la disoccupazione tedesca scende al 3,8%, contro la crescita di Italia (11,2%), Francia (9,4%) e media europea (9,1%).
Sostanzialmente si è realizzata una diversa divisione del lavoro e della produzione in Europa, determinando una diversa e profonda differenza dei tassi di crescita del reddito disponibile. In particolare si osserva la crescita della disoccupazione giovanile nazionale. Questa disoccupazione:
- pregiudica il rinnovamento della forza lavoro occupata
- riduce la produttività oraria legata alla capacità di “gestire” l’innovazione tecnologica da parte dei giovani che hanno tendenzialmente un maggiore livello di istruzione.
L’impatto sociale e dei tempi di vita è rilevante: la tendenziale caduta degli orari di lavoro si polarizza dove cresce la produzione e dove i salari sono più coerenti con la dinamica della produzione e del PIL. In Italia mediamente si lavorano 367 ore in più della Germania e i salari sono più contenuti del 25% (2017).
Gli effetti sociali della crisi del 2007
La povertà in Italia si attesta a livelli costantemente superiori rispetto sia all’aggregato Europa a 6, sia all’Ue a 28. La crisi del 2008 ha nel nostro Paese un effetto molto più intenso: dopo il 2010 il tasso di deprivazione materiale è aumentato nella media degli anni di circa 5 punti percentuali in Italia e soltanto di 1 punto nei sei paesi fondatori. Analogamente il rischio di povertà o esclusione sociale è aumentato di circa 3 punti percentuali in Italia a fronte di 1 solo punto per l’Europa a 6.
Infatti, la quota dei salari, cioè la percentuale di reddito spettante al lavoro dipendente (corretta per tenere conto delle differenze nella composizione del lavoro) dagli anni Ottanta è diminuita nell’insieme dei Paesi fondatori, ma ancor di più in Italia.
Ancora nessuna plausibile risposta
Tanti commentatori sostengono che da questa crisi non si uscirà come siamo entrati. Alla fine il mercato seleziona le imprese efficienti, ma le condizioni di partenza “condizionano” le risposte delle imprese e degli stessi Stati. Tutte le imprese europee sono state interessate dalla crisi, ma l’impresa italiana, in ragione delle debolezze pregresse, è crollata sotto il peso della propria de-specializzazione, a cui hanno contribuito le politiche di austerity e in particolare la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Sono passati 10 anni dall’inizio della Grande Recessione e non abbiamo all’orizzonte ancora nessuna plausibile risposta. Forse la vera notizia è proprio questa.