L’insegnamento greco: la bassa politica ha aiutato l’alta finanza

La Grecia è uscita dal terzo piano di aiuti ma non è fuori dal tunnel. Colpa dell'austerità. Ma anche di politiche folli su armi, conti ed energia

Una manifestazione contro l'austerità in Grecia, in occasione del referendum che si è tenuto nella nazione europea il 5 luglio 2015 © Jubilee Debt Campaign via Flickr

Atene, inverno 2014. La peggiore crisi economica della storia della nazione europea è ormai devastante. Nella capitale sembra perennemente domenica, con strade piene di negozi chiusi, saracinesche abbassate. Fa freddo nella metropoli ellenica. Nonostante ciò, il 44% degli immobili dotati di caldaie centralizzate ha rinunciato al riscaldamento: non ci sono i soldi. Decine di migliaia di famiglie si sono viste tagliare la luce per non aver pagato le bollette. Per la prima volta dai tempi della Seconda guerra mondiale a patire la fame non solo ristrette fasce povere della popolazione.

289 miliardi di euro di prestiti.  Ad un prezzo sociale altissimo

D’altra parte, come spiegato da uno studio pubblicato nel 2015 dall’Institut für makroökonomie und konjunkturforschung di Düsseldorf, nel corso degli anni dell’austerità le tasse sui ricchi furono aumentate del 9%, mentre quelle sul resto della popolazione del 337%. Anche per questo, la crisi erose meno del 20% del reddito dei più agiati. A fronte dell’86% patito dalla popolazione più povera.

Ciò nonostante, la Grecia, per evitare il fallimento, fu costretta ad accettare politiche economiche di estremo rigore. Che non hanno fatto che aggravare la recessione, facendo sprofondare ancor di più l’economia locale. Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale (la cosiddetta troika), infatti, concessero in tutto 289 miliardi di euro di prestiti (252 miliardi nel quadriennio 2010 – 2014). A condizione di imporre la loro ricetta per uscire dalla crisi. Basata, però, su previsioni che sono state completamente disattese.

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Le previsioni sbagliate del Fondo monetario internazionale

Un caso emblematico fu quello dei tassi di disoccupazione. Il Fmi, nei suoi documenti ufficiali, indicò una serie di previsioni sul mercato del lavoro greco. Negli anni che vanno dal 2010 al 2013, secondo l’organismo internazionale, il numero di senza lavoro avrebbe dovuto essere pari a:

  • 11,8% nel 2010,
  • 14,6% nel 2011
  • 14,8% nel 2012
  • 14,3% nel 2013.

I dati reali furono mostruosamente distanti:

  • 12,6% nel 2010,
  • 17,7% nel 2011,
  • 24,3% nel 2012
  • 27,3% nel 2013.

Eppure la troika perseverò.

«L’Europa – spiega Mario Pianta, professore di Politica economica all’università di Urbino – imponendo l’austerità, ha affossato la domanda. Ha fatto cioè il contrario di ciò che era necessario. E la Grecia rappresenta un esempio estremo dell’applicazione di tale ricetta. Prima della crisi lo sviluppo economico greco si basava in buona parte sulla spesa pubblica, ma mancava una capacità produttiva interna adeguata».

Secondo il docente, inoltre, Atene si è trovata «al centro di un braccio di ferro politico. Si voleva dimostrare che la Grecia dovesse obbedire ai diktat di Bruxelles. Anziché decidere democraticamente quale strategia attuare per uscire dalla crisi. Un modo di fare brutale, che ha portato il Paese in una situazione disperata. Basti pensare che, ancora oggi, la capacità produttiva è ridotta del 40% rispetto a prima della crisi, allo stesso modo del reddito procapite».

«Dal 2001 conti pubblici truccati»

Inoltre, osserva ancora Pianta, «i tagli selvaggi alla spesa pubblica hanno fatto sì che esistano malati che non si sono più potuti curare. La domanda che pongo è: chi avrebbe accettato tutto ciò? Chi avrebbe accettato che la Germania, ossessionata dalla volontà di generalizzare il proprio modello, imponesse le proprie idee dall’esterno?». La tragedia greca è tutta colpa della ricetta rigorista, dunque? No. L’austerità ha certamente aggravato la crisi greca, ma a portare il Paese sull’orlo del baratro furono almeno altri due attori: l’alta finanza e la bassa politica.

Nel febbraio del 2010, due inchieste dello Spiegel e del New York Times rivelarono in che modo la banca americana Goldman Sachs aiutò la Grecia a “truccare” i conti pubblici dal 2001 in poi. L’istituto di credito partecipò così – assieme ad altre grandi banche d’investimento come JP Morgan e hedge funds come quello di John Paulson (soprannominato il “Sultano dei subprime”) – ad appendere ad un filo una nazione intera.

Il ruolo di Goldman Sachs e i Credit-default swap

All’inizio degli anni Duemila, infatti, la Grecia diede mandato a Goldman Sachs una serie di consulenze sulla gestione dei conti pubblici. Alla fine del 2001, le parti raggiungono un’intesa. L’idea fu di convertire il debito estero della Grecia in Euro, attraverso un prodotto derivato (“swap valutario”).

Quello swap fu battezzato “Eolo” e, come ricostruito dalla stampa internazionale operò sulla base di tassi di cambio artificiali. Ciò permise alla Grecia di ricevere più denaro, che avrebbe rimborsato più tardi. Come? Con gli introiti delle tasse aeroportuali e i ricavi delle lotterie nazionali.

Inizialmente tutto sembrò andare per il verso giusto: la Grecia snellì di 2,8 miliardi di euro i suoi bilanci nel 2002. Portando il rapporto debito/Pil dal 105,3 al 103,7%. Per il lavoro, Goldman Sachs incasso 600 milioni di euro, secondo Bloomberg. Al contempo, però, la banca investì in altri prodotti derivati, detti CDS (Credit-default swap). Il cui andamento è legato alle possibilità che il soggetto emettitore di un titolo potesse fallire. In altre parole, il valore dei CDS sulla Grecia aumentava con il peggiorare della situazione.

La “contabilità creativa” e le dimissioni di Papandreou

Goldman Sachs, alla fine, arriverà ad incassare più di 5 miliardi di euro grazie alle operazioni legate, direttamente o indirettamente, alla nazione europea. La cui “contabilità creativa”, nel 2005, proseguì. La banca americana convinse anche la National Bank of Greece (primo istituto di credito commerciale del Paese) ad adottare la stessa strategia dello Stato. Poi, nel 2009, creano insieme una società con sede a Londra, chiamata Titlos. Un “veicolo” che permise di trasformare lo swap in obbligazioni con scadenza nel 2039.

Era la fine del 2009, quando i dirigenti di Goldman Sachs e del fondo Paulson propongo un nuovo affare alla Grecia. Il primo ministro di allora, George Papandreou, però, rifiuta. La strada per la recessione e la crisi è tuttavia ormai segnata. Colpa dunque delle speculazioni e dell’avidità spregiudicata della finanza? O colpa dell’incapacità dei governanti greci di comprendere in che disastro si stavano cacciando? Le responsabilità, è evidente, in un caso come questo non possono che essere diffuse.

Spese militari folli: Atene ha più carri armati di Germania e Regno unito

Sulle spalle dei governi della Grecia, senza dubbio, gravano scelte strategiche miopi e in alcuni casi incomprensibili. Basti pensare che ancora negli anni più duri della crisi, Atene ha continuato a consacrare alle spese militari circa il 2% del proprio Pil. Un Paese da 11 milioni di abitanti possiede oggi più carri armati (1.300, di cui 170 modelli “Leopard II” di fabbricazione tedesca) della Germania e della Gran Bretagna. E cinque volte più della Francia.

Sempre da Francia e Germania, la Grecia ha poi comprato 223 cannoni dismessi, 2 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrup (1,3 miliardi), 6 fregate e 15 elicotteri francesi, nonché alcune motovedette. L’Europa impose l’austerità, dunque, ma a corrente alternata.

I carri armati modello Leopard 2 di produzione tedesca acquistati dalla Grecia © Bundeswehr/Modes via Wikimedia Commons

Energia: le fossili ancora regnano sovrane (e arricchiscono l’estero)

In materia di energia, poi, non è mai stata pianificata una seria politica di transizione ecologica. Il Paese è ancora fortemente dipendente dalle fonti di energia fossili. Il saldo tra importazioni ed esportazioni di petrolio nel 2017 è stato di -3,2 miliardi di euro. In generale, inoltre, la maggior parte dell’energia viene dall’estero.

Un’analisi di Energypedia su dati della Banca Mondiale dell’IEA, di Greenpeace e WWF indicava poi, quando si era ancora nel pieno della crisi, che puntando sul solare ed eliminando il petrolio, si sarebbero potuti risparmiare almeno 800 milioni di euro all’anno.