Perché le fonti fossili rischiano di affossare l’Eni

Anche alcuni documenti interni di Eni confermano i rischi che la compagnia corre continuando a sfruttare le fonti fossili

Andrea Turco
Un impianto di Eni a Taranto © Cineberg/iStockPhoto
Andrea Turco
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Come ogni anno, a metà maggio per Eni sarà tempo di bilanci attraverso l’appuntamento dell’assemblea degli azionisti. Che, per il terzo anno consecutivo, si terrà a porte chiuse. A leggere i comunicati stampa degli ultimi due trimestri, per il cane a sei zampe sembra andare tutto a gonfie vele. Il governo Draghi gli ha affidato le chiavi della strategia energetica nazionale. E l’azienda ha conseguito utili record grazie agli enormi aumenti del prezzo del gas sul mercato internazionale di Amsterdam. Eppure per Eni gli elementi di preoccupazione sono dietro l’angolo.

Il rischio concreto di rimanere esclusa dai fondi ESG

Per il colosso energetico il rischio di restare escluso dai fondi ESG e più in generale dal campo della finanza sostenibile è piuttosto concreto. Ne abbiamo parlato con Francesco Bicciato, segretario generale del Forum per la Finanza Sostenibile.

«È troppo presto per tracciare previsioni sulle conseguenze della guerra in Ucraina, anche dal punto di vista finanziario – premette Bicciato -. Al di là dell’auspicio che finisca tutto presto, la dipendenza dalle fonti fossili che è emersa in maniera preponderante con la guerra può avere un effetto positivo sulle energie rinnovabili. Dal mio punto di vista la finanza sostenibile può essere lo strumento idoneo quando verrà il tempo della pace e della ricostruzione». Viene da chiedersi se questa ricostruzione dovrà vedere le compagnie oil&gas come Eni, che in questo momento stanno recitando la parte del leone, modificare i propri orizzonti se vorranno ancora intercettare i fondi ESG.

L’investimento sulle rinnovabili conviene anche dal punto di vista economico

«È evidente che le grandi compagnie non possono puntare solo al breve termine ma devono riconvertire i propri processi produttivi in una prospettiva più a lungo raggio – è il commento di Bicciato -. Dovranno essere le stesse compagnie ad andare verso gli investimenti nelle rinnovabili. In quel caso troveranno una finanza sostenibile che sarà disponibile a supportare questo processo. C’è un aspetto su cui si riflette poco, ovvero che l’investimento nelle rinnovabili già ora conviene anche dal punto di vista economico. Queste energie non hanno solo una qualità sociale e ambientale. Le rinnovabili si basano su un’economia reale ed è l’economia reale che in questo momento occorre finanziare, non gli approcci speculativi che abbiamo visto all’opera con le fossili». 

descalzi eni

Fino a questo momento il cane a sei zampe ha ostentato sicurezza. Consapevole di essere stata tra le prime big del settore a intuire le potenzialità della finanza sostenibile (entrò nel mercato nel 2007). È la stessa Eni a ricordare che «nel corso del 2021 ha ottenuto valutazioni che la posizionano o confermano in un ruolo di leadership nei principali ratings ESG e indici specializzati (…). Questi traguardi confermano l’impegno a raggiungere i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite incorporati nella mission». 

ENI ostenta sicurezza ma ammette «crescenti rischi reputazionali e legali»

Poi però, se si va oltre la comunicazione, persino i documenti interni di Eni mettono in luce le preoccupazioni. Lo fa ad esempio l’ultima relazione finanziaria del cane a sei zampe, nella quale si legge che «le compagnie oil&Ggas sono esposte a rischi crescenti di tipo reputazionale e legale in relazione alla percezione da parte delle istituzioni e della società civile quali entità primarie responsabili delle emissioni di CO2 nell’atmosfera».

«Il verdetto della corte olandese contro la Shell – aggiunge la compagnia italiana – potrebbe aprire la strada all’avvio di cause simili nei confronti delle società oil&gas in altre giurisdizioni. Ampliando potenzialmente l’ambito delle responsabilità connesse alle emissioni di gas serra includendo nuove violazioni o fattispecie di reato come i diritti umani o l’ecocidio (…). Le iniziative del sistema finanziario e delle società di gestione del risparmio dimostrano il rischio emergente di un possibile, progressivo disimpegno dei prestatori di capitale dal settore oil&gas dovuto alla necessità degli asset manager e delle banche di dare seguito al mandato ESG. E di conseguire gli obiettivi emissivi veicolando le risorse finanziarie verso settori economici/aziende allineate agli obiettivi di Parigi».

«Effetti negativi rilevanti se la domanda di idrocarburi calasse rapidamente»

«Questo – continua la comunicazione interna -potrebbe comportare difficoltà di accesso al mercato dei capitali e una crescente pressione sui titoli delle società oil&gas. Questi sviluppi potrebbero determinare un declino strutturale della domanda d’idrocarburi nel lungo termine. Nonostante Eni stia attuando una strategia di riposizionamento del portafoglio che vede la progressiva riduzione del peso degli idrocarburi a beneficio della crescita della produzione di energie rinnovabili e carburanti ecocompatibili, attualmente il business legacy della exploraction&production costituisce ancora la principale fonte di redditività e di generazione di cassa del gruppo».

Di conseguenza, «qualora la domanda d’idrocarburi per effetto degli sviluppi di mercato/ tecnologici si riduca in maniera più rapida rispetto alle nostre aspettative, ne conseguirebbero effetti negativi rilevanti sulle prospettive di crescita, i risultati operativi, il cash flow e i ritorni per gli azionisti». 

Il Piano Strategico 2022-2025 punta ancora su petrolio e gas

Nonostante questi timori, il Piano Strategico 2022-2025 punta ancora fortemente su petrolio e gas. Allo stesso tempo Eni ribadisce l’impegno alla neutralità climatica al 2050 per i propri prodotti. Se qualche dubbio sorge a guardare l’orizzonte temporale molto ampio (troppo, secondo gli ecologisti) che Eni mira a raggiungere, ben altre preoccupazioni a livello reputazionale potrebbero arrivare da scadenze molto prossime

La prima è relativa a un’istanza, presentata dalla rete Legalità per il Clima e sottoscritta da  un gruppo di organizzazioni ecologiste, movimenti e gruppi ambientalisti, che denuncia l’inadeguatezza del piano industriale della maggior compagnia energetica nazionale rispetto al quadro di impegni internazionali volti al contrasto della crisi climatica.

L’inadeguatezza del piano industriale nel contrasto alla crisi climatica

L’istanza è stata presentata lo scorso febbraio al Punto di contatto nazionale (Pcn) dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. E si fonda sulle Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali, che fissano una serie di principi, ispirati alle norme internazionali, orientate a promuovere nelle imprese condotte responsabili dal punto di vista sociale, ambientale e della tutela dei diritti umani. Dopo la presentazione dell’istanza è arrivata una corposa replica (29 pagine) da parte del cane a sei zampe. Che prova a smontare punto per punto le contestazioni mosse. Da quel che trapela il Pcn potrebbe pronunciarsi entro giugno.

Qualche dubbio resta sulla terzietà dell’organismo scelto, visto che a decidere sulla controversia tra la società civile e un’azienda, tra l’altro a partecipazione statale, è di fatto il ministero dello Sviluppo economico. Cioè il ministero dicastero che, per sua natura, è dalle parte delle imprese. In ogni caso, se l’istanza fosse accolta il risultato per Eni, sotto il profilo reputazionale, potrebbe essere persino peggiore di una sentenza.

Le preoccupazioni sui diritti umani

Sempre a giugno poi, ed è il secondo grattacapo per il cane a sei zampe, si attendono le raccomandazioni finali del gruppo Onu sui diritti umani. Che tra settembre e ottobre 2021 ha svolto un viaggio in Italia lungo dieci giorni. Con lo scopo di redigere un documento di indicazioni per imprese ed enti pubblici. Sono stati ascoltati i sindacati, le organizzazioni della società civile, le istituzioni e le imprese.

Sotto osservazione da parte delle Nazioni Unite anche Eni, attraverso l’analisi dell’impatto dell’azienda in Basilicata, dove si estrae l’80% del petrolio italiano. E dove il cane a sei zampe detiene il più grande giacimento petrolifero a terra dell’Europa occidentale. Il quadro finale che ne è emerso, anticipato in una conferenza stampa al termine del tour perlustrativo, è stato estremamente preoccupante.

«I vertici di Eni escano dagli uffici e ascoltino le comunità locali»

Surya Deva, a capo del gruppo di lavoro ell’Onu, ha dichiarato che «Eni ha detto di non sapere nulla delle preoccupazioni della comunità locale. L’impresa ha parlato delle attività che svolge, ci ha mostrato le modalità del monitoraggio delle emissioni. Ma la comunità continua a non credere a una parola. I vertici aziendali devono uscire dagli uffici e mettersi in ascolto. E qui il ruolo del governo e degli enti pubblici è cruciale. Altrimenti ci sarà sempre uno squilibrio di poteri tra impresa e comunità».

Dalla relazione estesa che dovrebbe arrivare tra un mese ci si attende un’analisi ancora più approfondita. Insieme a ulteriori indicazioni al governo e agli enti pubblici su cosa fare. E se è vero che le Nazioni Unite possono fornire soltanto delle indicazioni, in assenza di vincoli normativi e meccanismi di sanzione economica, per il cane a sei zampe potrebbe profilarsi un ulteriore danno d’immagine


Andrea Turco, giornalista, collabora con A Sud onlus.