Euro sì, euro no. Ma c’è una terza via: riformare la moneta unica

L'euro ha enormi difetti, ma uscirne sarebbe peggio. Bisognerebbe riformarlo, con nuovi meccanismi di funzionamento, strumenti cooperativi tra i Paesi e monete complementari, fatte bene

Massimo Amato
Foto: Imelda, Unsplash
Massimo Amato
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L’uscita dall’euro continua, in modo strisciante, a circolare nel dibattito pubblico. Spesso veicolata anche da membri dell’attuale maggioranza di governo. Si può liquidare la cosa come una provocazione, certo, ma si può anche prendere sul serio la provocazione, e chiedersi se, per caso, essa non trovi alimento in effettive manchevolezze dell’attuale costruzione della moneta unica. E se, in alternativa alla polarizzazione fra un euro intoccabile e un euro irriformabile, non sia possibile pensare a una terza via: una sua riforma.

Una moneta nata male: niente convergenza economica

L’euro come lo conosciamo non era la sola opzione sul tavolo. Così come è stato concepito, è il frutto di una grave sottovalutazione della non convergenza delle economie dell’eurozona al momento dell’unione.

Alla sottovalutazione si è poi aggiunto da subito un eccessivo, e ideologico, ottimismo sulla possibilità di raggiungere la convergenza proprio grazie all’euro e ai mercati finanziari. Si è detto spesso che il peccato originale dell’euro è di essere una moneta unica che non poteva poggiare su una reale unificazione politica. Ma in effetti è andata peggio di così: il processo di convergenza economica, visto a sua volta come condizione per l’unificazione politica, è stato, per così dire, “subappaltato” ai mercati finanziari.

…e cresciuta anche peggio: gli squilibri si accumulano

Questo subappalto, politicamente dissennato, ha dato origine a cessioni di sovranità monetaria non compensate da una sovranità monetaria adeguata per la BCE (la Banca centrale europea). Ma anche alla fissazione di parametri di convergenza per le finanze pubbliche che sono lungi dall’avere una giustificazione economica cogente. Ciliegina sulla torta: l’assenza di ogni parametro di convergenza per i conti esteri, che ha aperto la porta all’accumulazione di squilibri commerciali, i quali a loro volta hanno aperto la strada al loro sistematico finanziamento attraverso i mercati finanziari. Questo dalla nascita dell’euro fino alla crisi del 2010.

Dopo la crisi divergenze, spread in aumento e austerità (ma neanche tanta)

Dopo la crisi, invece, i mercati finanziari hanno cominciato a alimentare le divergenze, nella forma di spread sempre più marcati. I quali attestano il fatto che la moneta unica non è già più così unica.

Insomma, l’euro è stato concepito senza meccanismi adeguati di prevenzione e gestione delle crisi, e la crisi dell’euro deriva proprio dal suo funzionamento e non da sue disfunzioni. E tuttavia la sola “ricetta” finora proposta è stata l’austerità.

Se i danni dell’austerità non sono stati peggiori è solo perché, almeno in parte, si è derogato ai principi di funzionamento fissati dai trattati: penso alle politiche “non convenzionali” di Mario Draghi, e al modo in cui la gestione dei saldi Target2 ha permesso di rendere meno brutale l’aggiustamento degli squilibri esteri in seguito all’interruzione dei flussi di capitale dal centro alla periferia scatenata dalla crisi.

A chi farebbe comodo uscire dall’euro?

Si dice che l’euro è irreversibile, ma si tratta di un’irreversibilità perversa, perché mentre non si vuole nemmeno mettere su tappeto una sua seria riforma, non si vuole nemmeno ammettere che la sua sopravvivenza è dovuta a una deroga sistematica ai suoi principi di funzionamento.

Ma la soluzione non è allora, proprio per questo, uscire dall’euro, a qualunque costo? La mia controdomanda è, però: per chi sarebbe una soluzione migliorativa? Se i Paesi del Sud non sono capaci, o anche solo non hanno voglia, di sottostare alla disciplina dell’euro, perché la Germania non esce da questa “gabbia di matti”?

E se fossero i Paesi “malati” ad andarsene, se per esempio uscisse l’Italia, che cosa resterebbe dell’euro?

Stiglitz l’ha detto in modo molto secco: se l’Italia resta nell’euro così com’è si distrugge, se esce dall’euro lo distrugge. Mi permetto di completare: lo distruggerebbe, molto probabilmente, ma senza per questo salvarsi.

Se l’Italia uscisse dall’euro…incertezza e danni certi

In Italia e altrove, esistono “sovranisti” che sostengono la necessità di un’uscita sulla base di argomenti “keynesiani”, e spesso anche legati alla Modern Monetary Theory (MMT). Le soluzioni proposte ondeggiano fra il “paramiracolistico” e il “parastatale”: il ritorno alla sovranità monetaria segnerebbe la fine di ogni problema economico e l’inizio di una stagione di rinnovata crescita.

Io invece continuo a credere che ci sia una bella differenza fra l’ammettere la necessità di un “ritorno dello stato”, come sostiene ormai, non solo Stiglitz, ma anche Blanchard, soprattutto se con forme nuove di intervento e finanziamento, e il ritenere che l’uscita unilaterale dall’euro abolirebbe ogni tensione.

Diciamolo chiaro: il primo problema dell’uscita unilaterale è proprio il regime di incertezza radicale in cui si troverebbe a svolgersi. Un’incertezza in grado di generare aspettative e comportamenti largamente imprevedibili prima dell’uscita, ma che sarebbe troppo tardi scoprire dopo. Detto questo, i danni sarebbero, senza dubbio, più dei benefici.

Dal debito ai dazi commerciali contro l’Italia

In primo luogo ci sarebbe il problema di un debito in gran parte emesso in moneta estera e non convertibile in moneta nazionale. I processi di svalutazione che ne seguirebbero potrebbero avere vantaggi in termini di competitività, ma che potrebbero essere annullati o addirittura invertiti di segno da una sistematica politica di dazi commerciali contro l’Italia.

Dalle fughe di capitali al collasso del sistema bancario

Poi c’è il problema dei movimenti di capitali. Se l’uscita si accompagnasse con controlli sui movimenti di capitali, il vantaggio di capitali esteri a entrare nel sistema italiano sarebbe molto ridotto, senza poter dare per scontato che la riguadagnata sovranità monetaria possa compensare i minori afflussi. Se viceversa l’uscita non prevedesse restrizioni, dovremmo aspettarci massicce fughe di capitali. Poiché a uscire non sarebbero solo capitali oziosi e speculativi, questo significherebbe anche meno investimenti. Avremmo uno shock negativo sul Pil e quindi sulla produttività, la cui durata sarebbe difficilmente prevedibile.

Non escluderei nemmeno un possibile collasso del sistema bancario. Certo, riavremmo una banca centrale “sovrana”. Che però non potrebbe monetizzare debito all’infinito. E il probabile downgrading del debito italiano priverebbe il sistema bancario di un asset sicuro per gestire i propri cicli di liquidità.

Infine, non sono affatto sicuro che un’Italia fuori dall’euro sarebbe in grado di ridurre con più efficacia il divario nord-sud, che dalla crisi non ha fatto che aumentare. E se guardo alle manovre attorno all’autonomia differenziata, vedo solo brutti segnali.

Allora, ci teniamo l’euro così com’è, facendo finta di non vedere i vincoli eccessivi che esso implica per l’economia italiana, e non solo?

Un euro nuovo

Se margini per una uscita unilaterale, ma ordinata, non ci sono per nessuno, resterebbe l’ipotesi di una uscita coordinata, in cui tutti si decida di “divorziare”. Ma se i Paesi dell’eurozona avessero la forza di coordinarsi per uscire avrebbero anche la forza e i mezzi per riformare l’euro.

Io credo che si possano e si debbano prendere in considerazione altre ipotesi di funzionamento. Per esempio, una BCE autorizzata, a determinate condizioni ed entro determinati limiti, a monetizzare i debiti di uno o più Paesi aderenti. Potremmo pensare a forme di “asset sicuri”, agli eurobond insomma, che consentano di mutualizzare i rischi-Paese e quindi a ridurre sistematicamente il peso delle valutazioni erratiche dei mercati finanziari.

Ma è l’euro stesso che potrebbe e dovrebbe essere modificato nei suoi meccanismi di funzionamento. Oggi le bilance commerciali dei Paesi dell’eurozona sono complessivamente in pareggio, ma l’eurozona è in una situazione di depressione, stimata molto probabilmente per difetto, vista la disoccupazione che caratterizza la zona nel suo complesso. C’è stabilità, ma siamo in un equilibro stabile di sottoccupazione.

Dalla moneta unica a una moneta comune

Un meccanismo alternativo che consenta l’equilibrio delle bilance senza passare per la depressione della domanda interna, un meccanismo che riprenda l’esperienza positiva dell’Unione Europea dei pagamenti (1950-1958), è però pensabile.

Si tratterebbe di agire sul commercio intraeuropeo di beni e servizi con strumenti cooperativi, che riconoscano una responsabilità per l’aggiustamento dei conti anche ai paesi in surplus. Come in parte è già sancito dalla Procedura per i Disequilibri Macroeconomici.

Per usare una formula, si tratterebbe di passare dall’euro come moneta unica all’euro come moneta comune, non necessariamente con la reintroduzione delle monete nazionali, ma con il sostegno a forme monetarie legate all’euro, ma a circolazione locale (monete complementari, e anche fiscali, ma ben fatte).

Elementi su cui appoggiarsi esistono già nell’attuale assetto dei trattati. Ho accennato alla Procedura per i Disequilibri Macroeconomici, ma penso soprattutto al sistema target2, che è già tecnicamente una camera di compensazione, che potrebbe essere utilizzata per mettere in atto meccanismi alternativi di finanziamento e aggiustamento degli squilibri commerciali.

Inoltre, il circuito fra banca centrale e tesoro può essere rimesso in funzione anche in seno all’eurozona. Un’opzione forse più difficile, ma politicamente molto più interessante di un recupero di sovranità nazionale.

La crisi europea è dietro l’angolo e la Germania non la vede

Concludo segnalando un paradosso tutto politico, benché fondato sull’economia. Oggi lo stato economicamente egemone in Europa, la Germania, non esercita la sua egemonia nell’unico modo sensato, cioè per la conservazione dell’insieme degli Stati che compongono l’unione.

Può sembrare che lo faccia nel proprio interesse e con solide ragioni economiche e “morali”. Ma non è così da nessun punto di vista. A meno che la miopia non venga elevata al rango di visione del mondo. Gli Usa non esercitarono l’egemonia dopo la prima guerra mondiale, e si arrivò alla crisi degli anni trenta. L’esercitarono nel secondo dopoguerra e ci furono i trenta gloriosi.

La miopia tedesca potrebbe curarsi fin da ora con buoni occhiali teorici. Potrebbe essere più duramente curata domani con l’avvicinamento del pericolo e con l’aumento dei danni per la stessa Germania.

La prossima crisi europea, di cui si avvertono le prime avvisaglie, potrebbe costituire comunque uno scossone.  A meno che la classe dirigente tedesca non sia affetta anche da presbiopia. In quel caso nulla cambierebbe, ma le cose si metterebbero davvero male.