Il turismo di massa distrugge ambiente e culture. E l’osservatorio Onu fa flop
Inutile la rete di 26 osservatòri Onu sul turismo. Le masse in viaggio depredano i luoghi più belli del mondo. Alcuni chiusi per preservarli
L’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO) si è mossa per tempo. E ben 15 anni fa, nel 2004, aveva creato l’International Network of Sustainable Tourism Observatories (INSTO), il network internazionale di osservatòri sul turismo sostenibile. In un’epoca in cui il tema del cambiamento climatico era presente, ma non onnipresente. E in cui gli impatti sociali e ambientali – in termini di emissioni di CO2 e di consumo di risorse collettive – delle masse di viaggiatori, e dei servizi e beni connessi, non erano così spesso sotto i riflettori.
Peccato che neanche oggi, questa rete internazionale di sentinelle per l’ambiente riesca a monitorare l’impatto del turismo per poi pensare a interventi pubblici in tutela dell’ambiente e dei territori. Colpa di un’organizzazione frammentata e di risorse insufficienti.
Osservatòri INSTO: tante antenne, ma fondi locali (scarsi)
Il network internazionale di osservatòri sul turismo sostenibile è una rete, oggi, di 26 stazioni posizionate in luoghi strategici (ultima in ordine di tempo ad Antigua Guatemala), pensata per studiare sul campo le dinamiche degli impatti del turismo sull’ambiente. Peccato che non si sia investito abbastanza nell’ottica della sfida climatica globale in corso. Del resto, ci spiegano dall’Eurac Research, l’ente privato di ricerca che costituisce la parte scientifica dell’osservatorio italiano nel Sud Tirolo, il loro lavoro per la rete INSTO viene finanziato con fondi locali. Non quindi attraverso il bilancio dell’UNWTO che, ultima tra le agenzie Onu, gestiva comunque 23 milioni di euro nel 2016.
Un presidio internazionale, con risultati limitati
Principale obiettivo degli osservatòri dove essere «sostenere il continuo miglioramento della sostenibilità e della resilienza nel settore turistico attraverso un monitoraggio sistematico, tempestivo e regolare delle prestazioni e dell’impatto turistico. E collegare destinazioni per capire meglio l’utilizzo delle risorse e promuovere la gestione responsabile del turismo».
Finalità che viene perseguita localmente e che si arricchisce nel costante dialogo tra gli osservatòri. Ma che – per motivi scientifici oggettivi, e anche per una scelta politico-organizzativa – non produce rilevazioni agganciate a dei benchmark, dei parametri di riferimento, capaci di essere ugualmente rappresentativi per ogni scenario.
Un’organizzazione che non permette quindi di produrre linee di valutazione e indirizzo utili per una politica globale del contrasto ai fenomeni deteriori.
Un risultato piuttosto limitato per le potenzialità che un presidio internazionale del genere poteva prefigurare.
Tanto più che il problema della carenza di dati scientifici complessivi e aggiornati sull’impatto sociale e ambientale del turismo è evidenziato spesso dai ricercatori.
Intanto il turismo di massa “brucia” sempre più risorse naturali
Come abbiamo già scritto su Valori, uno studio pubblicato nel maggio 2018 su «Nature» evidenzia l’incremento dell’impronta ecologica globale del turismo. Lavoro significativo che riguarda il periodo 2009-2013.
Ma un altro studio, seppur più datato (del 2015), riesce a catturare meglio l’entità dell’impatto del turismo (soprattutto quello di massa) sull’ambiente. Introduce il concetto di «intensità di utilizzo delle risorse (RUI)», ovvero «il fabbisogno di risorse turistiche per unità di consumo (ad esempio energia per notte per ospite)». E si propone addirittura di valutare l’impatto ambientale globale del turismo dal 1900 al 2050.
Secondo gli estensori, Stefan Gössling e Paul Peeters, visto il trend delle emissioni di CO2 provocate dai viaggi, nonostante gli sforzi per attuare forme di turismo più sostenibili, «il consumo complessivo di risorse del turismo potrebbe crescere tra il 92% (acqua) e il 189% (uso del suolo) nel periodo 2010-2050. Di conseguenza, per mantenere il sistema turistico globale è necessario aumentare rapidamente gli input di risorse, mentre il sistema diventa sempre più vulnerabile alle interruzioni del loro flusso».
Colpa delle vacanze di lusso
Primi responsabili del consumo smodato sarebbero le strutture turistiche di lusso (hotel e resort a 4 e 5 stelle, naturalmente) e i viaggi in nave e aereo. In particolare, concludono i due scienziati, «la modellizzazione mostra che per tutti gli aspetti delle risorse studiati, cioè energia ed emissioni, acqua, terra e cibo, l’uso delle risorse correnti raddoppierà entro 25-45 anni». Una previsione decisamente preoccupante, considerando gli allarmi che da ogni direzione giungono per l’avanzamento dei cambiamenti climatici.
Troppi turisti: località chiuse per salvaguardarle
E in tutto questo la presenza di milioni di viaggiatori è l’elemento chiave. A denunciarlo è ad esempio uno studio sulle relazioni tra l’economia locale, l’impatto ambientale e la presenza turistica in certe zone dell’Indonesia. Ma soprattutto i tentativi di governare i flussi, se non addirittura di limitarne l’accesso, promossi da alcune località tra le più frequentate.
Città cosmopolite come Amsterdam e Barcellona, ma anche la fragile Venezia o le 5 Terre liguri, l’isola greca di Santorini o diverse località del Giappone. Luoghi diversi che hanno già constatato l’eccessiva pressione dei troppi arrivi (perlopiù internazionali) e sono in cerca di nuove regole e rimedi (spesso l’introduzione di tasse ad hoc).
Causa danni alla biodiversità e alla popolazione corallina, la thailandese Maya Bay, presa d’assalto da quando fu protagonista del film The beach con Leonardo Dicaprio, è stata chiusa ai turisti fino al 2021. Con una scelta drastica e dolorosa per l’economia, ma ritenuta necessaria. Tanto che, alla sua riapertura, la località consentirà accessi ridotti di quasi 2/3 rispetto al passato. Ugualmente, l’isola di Boracay nelle Filippine è stata dichiarata off-limits per 6 mesi. Un tempo minimo per fare la conta dell’inquinamento da turisti e per ripristinarne il minimo equilibrio naturale.
Due esempi eclatanti per i quali lo stress territoriale è apparso misurabile attraverso la quantità di rifiuti o i danni all’ecosistema.
Cina: il turismo minaccia l’eredità culturale
Una ricerca pubblicata a gennaio 2019 (Sociocultural Impacts of Tourism on Residents of World Cultural Heritage Sites in China) dimostra che gli effetti collaterali indesiderati del turismo di massa possono tradursi anche in altro.
Tutto da misurare e da valutare è infatti l’inquinamento socioculturale, se così si può chiamare. Un fattore associato allo sviluppo di nuove forme di economia legate al passaggio di chi viaggia.
Fenomeni studiati a proposito di tre villaggi del Kaiping, in Cina, dove si trovano alcune antiche torri fortificate (Diaolou). Località dove la presenza, un tempo sconosciuta, di migliaia di turisti ogni anno sta modificando una stratificazione secolare di culture e tradizioni. «lo sviluppo del turismo – scrivono i ricercatori – è il principale catalizzatore del cambiamento nei valori morali dei residenti locali». E lo stesso vale per gli stili di vita. Un effetto giudicato con preoccupazione perché, al di là del portato economico, comunque da valutare, l’invasione turistica sarebbe causa della perdita di un patrimonio immateriale diffuso, e del mutamento di equilibri dalle conseguenze ancora imprevedibili.