Il fondo danese AkademikerPension dice addio al fossile (e ad Eni)

Il fondo pensione ha passato anni a far pressione sulle aziende fossili perché cambiassero rotta. Ora disinveste e cede le quote di Eni

I piani di transizione climatica delle aziende sono pochi e poco credibili © iconoexpo.dk

C’è chi ci prova davvero a disinvestire dal fossile. Sia perché, se il mondo davvero andrà nella direzione della transizione e il fossile dovesse diventare una polpetta avvelenata (o uno stranded asset, in gergo finanziario), sarà meglio farsi trovare già dalla parte giusta. E con le mani libere. Sia, forse, perché crede nel valore dell’Accordo di Parigi e spera che si riesca a invertire la rotta in tempo (per quel che è possibile ad oggi). E infatti, prima ancora di disinvestire, qualcuno cerca di esercitare pressione sulle aziende fossili perché scelgano le rinnovabili.

È il caso del fondo pensionistico danese AkademikerPension, che lo scorso 28 settembre ha ceduto la quota che deteneva in Eni, pari a 33 milioni di corone danesi (4,6 milioni di dollari). A completamento di un programma di disinvestimento dal settore petrolifero e del gas che ha portato in 5 anni a dismettere 3,7 miliardi di corone (520 miliardi dollari) di titoli.

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I vertici del settore fossile che si rifiutano di cambiare rotta e i tentativi con Eni

In realtà, prima di cedere le partecipazioni, AkademikerPension aveva cercato a lungo di convincere queste aziende a cambiare rotta. Per poi, di fatto, finire per rendersi conto infine che «i vertici del settore petrolifero e del gas si rifiutano semplicemente di farlo in modo coerente con gli obiettivi di Parigi». Il fondo pensionistico danese infatti aveva un certo peso nel settore, detenendo partecipazioni in alcune delle maggiori compagnie fossili.

In questi anni di tentativi falliti nel convincere le major a prendere sul serio la transizione, man mano AkademikerPension ha battuto in ritirata. Cedendo partecipazioni in società come Chevron, Exxon Mobil, Petrobras, PetroChina, Shell, TotalEnergies: le solite note, cui infine si è aggiunto anche il colosso italiano. «Ad Eni è stato permesso di rimanere nella nostra lista di osservazione e di avere un’ultima possibilità, mentre cercavamo di influenzarne la gestione attraverso l’azionariato attivo», racconta il responsabile degli investimenti Anders Schelde.

Si sono incontrati però in primavera con la dirigenza e hanno capito che non c’era niente da fare. Anzi, tramite una controllata (la società norvegese Vaar Energi) Eni ha in programma di espandere l’esplorazione petrolifera in aree artiche “vulnerabili”. Questa direzione ostinata e contraria alla transizione e all’Accordo di Parigi ha convinto AkademikerPension a lasciar perdere. Se Eni non voleva cambiare la propria strategia, loro avrebbe cambiato la propria.

Il disinvestimento: un’extrema ratio quando il dialogo fallisce

L’idea è che sia possibile influenzare il comportamento delle aziende facendo temere una riduzione della fiducia degli investitori. Fino ad arrivare al disinvestimento quando non c’è più altro da fare, come in questo caso. «Quando noi e gli altri investitori vendiamo azioni, mettiamo pressione sul prezzo delle azioni stesse. A parità di condizioni, sarà più costoso per le aziende raccogliere capitali sia sul mercato azionario che su quello obbligazionario».

I disinvestimenti possono pesare molto sulle finanze di un’azienda e se avvengono pubblicamente, puntando il dito sul fallimento di altre strade, si può sperare che a quel punto le aziende smettano di “aspettare”. Per Anders Schelde infatti si tratta di questo: le aziende fossili non fanno che procrastinare la transizione. Così, ora, si ritrovano decisamente in ritardo. E da società che insistono in questa direzione, non si può far altro che disinvestire.