In Canada la battaglia dei popoli aborigeni contro un gasdotto

In Canada dal 2018 il popolo Wet'suwet'en combatte contro la costruzione di un gasdotto nelle terre ancestrali che abita

Uno striscione su un'autocisterna di gas liquefatto a Vaughan, Ontario, in un evento di protesta in solidarietà con i Wet'suwet'en. 14 febbraio 2020 © Wikimedia Commons

In Canada c’è un popolo indigeno che, dal 2018, combatte contro tutto e tutti per impedire la costruzione di un gasdotto nelle terre ancestrali che abita. I Wet’suwet’en risiedono nello Yin’tah, un’area di 22mila chilometri della Columbia Britannica. Da cinque anni difendono il proprio territorio dalla costruzione dell’infrastruttura che, come denunciato da Amnesty International, ha ricevuto la benedizione del governo centrale. «Invece di proteggere i diritti delle popolazioni indigene, le autorità canadesi proteggono gli interessi dei combustibili fossili», si legge nel comunicato della ong.

L’opera, lunga 670 chilometri, è pensata per trasportare il gas da Dawson City, cittadina in cui viene estratto, all’impianto di esportazione di Kitimat. Il tubo divide di fatto a metà il territorio dei Wet’suwet’en, nel quale vivono 5.300 persone. Il progetto ha comportato un investimento di 4,8 miliardi di dollari da parte di Coastal GasLink Pipeline Ltd (CGL) e TC Energy Corporation (ex TransCanada). Nell’autunno 2023 TC Energy ha annunciato la fine dei lavori di costruzioni del gasdotto GasLink e preventivato la messa in funzione dell’opera entro la fine dell’anno.

Cinque anni di violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale

La battaglia è iniziata nel dicembre 2018, con un presidio sull’area di costruzione del gasdotto sbaragliato da un violento intervento della Royal Canadian Mounted Police (RCMP), la polizia federale canadese. Il dispiegamento di forze ha previsto l’utilizzo di uomini, camionette e persino un elicottero. Secondo il Guardian, in quel caso la RCMP aveva ricevuto l’ordine di non lesinare, se necessario, sull’uso delle armi.

L’intervento della polizia ha comportato l’arresto di 14 attivisti. I primi di una lunga serie. Questi anni hanno visto occupazioni del cantiere, blocchi stradali, manifestazioni pubbliche e occupazioni delle linee ferroviarie. Con risposte spesso fortemente repressive, tra incarcerazioni di massa, persecuzioni e limitazione dei diritti umani. Un rapporto di Amnesty International illustra le diverse violazioni del diritto internazionale da parte delle società coinvolte. A partire dal dicembre 2019 la Corte suprema canadese è entrata a gamba tesa nel contenzioso, con un’ingiunzione che vieta le proteste e l’accesso ai cantieri, pena l’arresto.

Negli ultimi anni si è progressivamente rafforzata la presenza di diverse forze di sicurezza, pubbliche e private. La Gendarmeria reale del Canada (GRC), il suo Gruppo d’intervento per la sicurezza della collettività e dell’industria (GISCI) e la società di sicurezza privata di CGL, Forsythe Security, intimidiscono la popolazione seguendola, filmandola e fotografandola regolarmente.

In ben quattro occasioni la RCMP ha condotto blitz nelle abitazioni degli attivisti, come testimonia il capo ereditario Na’Moks: «Hanno abbattuto le porte delle nostre case con asce e seghe meccaniche. I cecchini ci hanno puntato contro i fucili, hanno utilizzato cani e le nostre abitazioni sono state distrutte e bruciate». Gli ultimi cinque anni hanno visto una criminalizzazione sistematica del dissenso, con l’arresto di più di 75 difensori della terra e due giornalisti. Le persone arrestate hanno denunciato condizioni di detenzione che Amnesty International definisce come «crudeli, inumane e degradanti».

Perché il popolo Wet’suwet’en si scaglia contro il nuovo gasdotto in Canada

Oltre alle violazioni dei diritti umani e delle terre ancestrali, il popolo Wet’suwet’en denuncia il degrado ambientale che accompagnerà la messa in opera del gasdotto. Da un lato ci sono le evidenti ragioni climatiche. La realizzazione dell’infrastruttura, da parte di un Paese come il Canada che è quarto produttore di petrolio e quinto di gas naturale al mondo, viola apertamente l’Accordo di Parigi. Difficile anche farlo combaciare con la promessa del governo, fatta lo scorso luglio, di abbandonare le sovvenzioni inefficienti all’industria petrolifera e del gas.

Il gasdotto avrà inoltre impatti ambientali che si ripercuoteranno sulla vita della comunità. Come ha spiegato Molly Wickham, portavoce Wet’suwet’en: «La distruzione ambientale del nostro territorio ha un enorme impatto sul nostro popolo. Dipendiamo dai salmoni, dai nostri ruscelli e dal nostro fiume».

popolo indigeno Wet'suwet'en in Canada
La sussistenza del popolo indigeno Wet’suwet’en è strettamente legata alle condizioni del territorio © Jerome Charaoui/Wikimedia Commons

Le istituzioni aborigene hanno introdotto un protocollo in virtù del quale qualsiasi installazione o progetto sul proprio territorio necessita del consenso libero, preventivo e informato da parte della popolazione. Proprio l’assenza di tale consenso è l’oggetto della denuncia di cui anche Amnesty si è fatta portavoce.

In virtù delle violazioni degli impegni ambientali del Canada e dei protocolli dei Wet’suwet’en, a febbraio 2019 i capi della popolazione hanno chiesto lo stop dei lavori. A inizio 2020 e nel novembre 2021 CGL ha ricevuto due notifiche di sfratto. Per i lavori condotti e i loro impatti ambientali, TC Energy ha già ricevuto una multa di 346mila dollari canadesi.

Il governo canadese mette a rischio la sovranità dei popoli aborigeni sulle terre ancestrali

Secondo quanto riportato da Amnesty International, il governo canadese avrebbe messo in atto un vero processo di espulsione dei popoli aborigeni dalle terre ancestrali. A partire dagli anni Sessanta si sono susseguiti retate, sgomberi forzati, trasferimenti coatti, espropriazioni e carcerazioni. Tra le pratiche adottate ci sono anche l’imposizione di scuole residenziali per i bambini aborigeni, di regole di registrazione degli indiani, la sterilizzazione di massa.

La popolazione Wet’suwet’en si è sempre imposta e ha tenuto il controllo delle proprie terre, conservandone la sovranità collettiva. Negli ultimi dieci anni, sotto la guida dei capi ereditari, sono stati costruiti diversi “siti di rioccupazione”, aree su cui il popolo ha affermato la propria autorità per proteggerle dai progetti delle industrie. Interventi che però, come dimostra la vicenda del gasdotto, non sono ancora sufficienti per un’autentica tutela dei diritti umani.