Inditex: tra impatto climatico, voli cargo e repressione sindacale

Tra voli cargo, greenwashing e repressione sindacale: la fast fashion di Inditex e Zara continua a fare danni a clima, lavoratori e consumatori

Zara è uno dei brand controllati dalla multinazionale spagnola Inditex © J2R/iStockPhoto

Forse il nome Inditex non ti dice molto. Ma se parliamo di Zara, Massimo Dutti, Bershka, Pull&Bear, Oysho o Stradivarius, allora sì che ci capiamo. Inditex è la multinazionale spagnola che controlla tutti questi marchi. Un curioso dettaglio: quando nel 1989 il New York Times coniava il termine fast fashion, lo faceva proprio in occasione dell’apertura di un negozio Zara a New York. Oggi, a distanza di oltre trent’anni, Inditex è ancora sinonimo di velocità – non solo per la rapidità con cui cambia collezioni, ma anche per il numero impressionante di voli aerei con cui fa viaggiare i suoi capi in tutto il mondo.

Un rapporto pubblicato a novembre 2023 da Public Eye, in collaborazione con la Campagna Abiti Puliti, accende i riflettori sull’impatto climatico della fast fashion, con un focus particolare sul trasporto aereo. Alcuni numeri aiutano a capire l’entità del fenomeno: nel solo 2022 l’Unione europea ha importato ed esportato oltre 387mila tonnellate di abbigliamento. L’equivalente del carico trasportato da 7mila aerei cargo o 20 voli merci al giorno.

Inditex e la “moda volante”: le spedizioni aeree che pesano sul clima

In questo sistema, Inditex si conferma leader incontrastata della cosiddetta “moda volante”. Secondo nuovi dati, nel 2024 le emissioni legate al trasporto della multinazionale spagnola sono aumentate del 10%, raggiungendo i 2,6 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti. Oggi, secondo Public Eye, il trasporto rappresenta circa il 20% dell’impronta climatica di un singolo capo venduto da Zara, proprio a causa del massiccio ricorso ai voli cargo necessari a sostenere un modello produttivo ultra-veloce — e altrettanto insostenibile.

Proprio questo tema è stato al centro del primo intervento durante l’assemblea degli azionisti di Inditex il 15 luglio scorso da parte di un azionista critico, Fondazione Finanza Etica, che rappresentava una coalizione di organizzazioni (Campagna Abiti Puliti, FAIR, Public Eye e Setem – tutte parte della Clean Clothes Campaign). Essere azionista critico significa avere acquistato un pacchetto minimo di azioni di un’azienda per poter partecipare ufficialmente all’assemblea. Obiettivo: portare all’attenzione del consiglio di amministrazione e degli altri investitori le gravi responsabilità ambientali e le violazioni dei diritti umani che continuano a macchiare la filiera della fast fashion.

Secondo gli attivisti, Inditex cerca di minimizzare l’impatto climatico delle proprie operazioni logistiche, in particolare la sua evidente dipendenza dal trasporto aereo. Un dettaglio significativo: nelle 514 pagine del rapporto annuale, l’espressione “trasporto aereo” compare una sola volta – e solo per citare un accordo relativo all’uso di carburanti sostenibili per l’aviazione. L’azienda prevede infatti di aggiungere un 5% di carburante “green” ai voli cargo in partenza da Madrid. Ma, di fronte alle milioni di tonnellate di CO2 prodotte ogni anno, questa misura appare come una goccia nel mare. O, più precisamente, come un’operazione di greenwashing, utile a salvare più l’immagine che il clima.

Diritti sindacali calpestati in Bangladesh: Inditex nel mirino

Durante le proteste scoppiate nell’ottobre 2023 in Bangladesh, migliaia di lavoratrici e lavoratori tessili si sono mobilitati per chiedere un aumento del salario minimo mensile, inizialmente fissato a circa 8.300 taka (75 dollari) e giudicato insufficiente. La loro richiesta era arrivata fino a 23mila taka (209 dollari), ma l’aumento proposto era stato limitato a 12.500 taka (113 dollari). Una cifra giudicata deludente dai sindacati, tanto che le manifestazioni sono proseguite, sfociando in scontri con le forze dell’ordine e provocando la chiusura di circa 600 stabilimenti e, purtroppo, almeno due morti.

Nel contesto di queste proteste, almeno 3mila dipendenti – su circa 6mila coinvolti nella filiera di Inditex – restano ancora sotto la minaccia di procedimenti giudiziari penali avviati dai fornitori. Secondo la coalizione di azionisti critici si tratta di un chiaro tentativo di repressione sindacale: accuse pretestuose pensate per intimidire e scoraggiare i lavoratori in sciopero. Il tutto, denuncia la coalizione, al fine di istituire un clima di paura e silenzio nelle fabbriche, proprio mentre cresce la pressione sui grandi gruppi della fast fashion per assumersi responsabilità sociali e ambientali.

Transizione giusta per la moda: quale ruolo può giocare Inditex?

«Attivisti e consumatori chiedono trasparenza sulle politiche di gestione del rischio adottate dal colosso spagnolo della fast fashion», ha dichiarato Deborah Lucchetti, presidente di FAIR e coordinatrice nazionale di Campagna Abiti Puliti. «La richiesta di un salario dignitoso per chi produce i capi e quella di abbandonare il trasporto aereo alimentato da combustibili fossili sono due facce della stessa lotta: giustizia sociale e climatica sono inscindibili».

Una posizione che richiama con forza la necessità di una transizione giusta nel mondo della moda. Una transizione che non può limitarsi a soluzioni di facciata, ma che deve affrontare in modo strutturale le disuguaglianze lungo tutta la filiera, redistribuendo in modo equo i costi e i benefici del cambiamento. Una questione di equità – tra Paesi, tra lavoratori e aziende, tra generazioni.

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