Banking on Climate Chaos, le pagelle di Intesa Sanpaolo e Unicredit

54 miliardi di dollari: è il totale dei finanziamenti alle fonti fossili erogati da Intesa Sanpaolo e Unicredit dal 2016 al 2021

Unicredit © Julien Rocheblave/Unsplash

Entrambe non si sono mai tirate indietro, quando c’è stata l’occasione di siglare iniziative legate alla sostenibilità. Come i Principles for Responsible Banking e il Global Compact e – più di recente – la Net-Zero Banking Alliance (NZBA), l’alleanza di grandi banche che promettono di allineare i propri portafogli di prestiti e investimenti all’obiettivo delle zero emissioni di gas serra. Stiamo parlando di Intesa Sanpaolo e Unicredit, in cima alla lista delle maggiori banche italiane, con un totale attivo tangibile rispettivamente di 994,3 e 929,3 miliardi di euro nel 2020.

Ma siamo sicuri che alle loro parole seguano i fatti? Troviamo una risposta nell’ultima edizione di Banking on Climate Chaos, lo studio con cui una coalizione di ong fa luce sui 60 istituti di credito che, nonostante tutto, continuano a inondare di miliardi l’industria dei combustibili fossili. Per la precisione, nel loro insieme hanno stanziato 4.590 miliardi di dollari dalla firma dell’Accordo di Parigi in poi. Intesa Sanpaolo e Unicredit, messe insieme, sono a quota 54 miliardi.

Intesa Sanpaolo finalmente chiude con il carbone

Cominciamo con le belle notizie, perché – per fortuna – ci sono. Il 2021 è stato l’anno in cui, finalmente, Intesa Sanpaolo ha fermato con effetto immediato tutti i nuovi finanziamenti per l’estrazione del carbone in vista del phase out (cioè l’azzeramento delle esposizioni) entro il 2025. Una promessa che vale anche per le risorse oil&gas non convenzionali, anche se in questo caso l’addio definitivo è spostato leggermente più avanti, al 2030.

Viene da dire che dovrebbe essere la norma, visto che il patto internazionale per spegnere le centrali a carbone entro il 2030 risale addirittura alla Cop23 di Bonn. Cioè al 2017. Eppure, da Banking on Climate Chaos scopriamo che i finanziamenti alle centrali a carbone sono rimasti pressoché stabili, aggirandosi attorno ai 44 miliardi di dollari l’anno. Altri 17,4 miliardi invece sono andati alle miniere. Un controsenso, visto che si tratta di una fonte di energia che va dismessa, e in fretta. In entrambi i casi gli istituti di credito cinesi sono in prima linea.   

Intesa Sanpaolo
Intesa Sanpaolo © Wikimedia Commons

Le trivelle nell’Artico targate Intesa Sanpaolo

Da una banca come Intesa, che fa vanto di essere l’unica italiana nei Dow Jones Sustainability Index (globale ed europeo), ci si aspetterebbe lo stesso rigore anche di fronte alle trivelle che devastano l’Artico. Invece, proprio mentre alla Cop26 di Glasgow si discuteva di come scongiurare le conseguenze peggiori della crisi climatica, l’ambasciatore italiano in Russia confermava che il gruppo aveva finanziato il progetto Arctic LNG-2, contando sulla copertura assicurativa di SACE, l’agenzia italiana per il credito all’esportazione. A marzo 2022 il prestito da 500 milioni di euro è stato congelato, ma per via della guerra in Ucraina.

Banking on Climate Chaos cita proprio Intesa Sanpaolo tra gli istituti che più hanno foraggiato le attività estrattive nell’Artico, con 711 milioni di dollari nel corso del 2021. Soltanto l’americana JP Mogan Chase e la giapponese SMBC hanno fatto di peggio, superando il miliardo di dollari ciascuna.

E dire che, sulle 60 grandi banche esaminate dal report, 40 hanno adottato policy specifiche sulle attività estrattive nell’Artico. Peccato che siano quasi tutte lacunose, perché magari si riferiscono soltanto ai siti all’interno del Circolo Polare Artico (quando in realtà l’area di interesse delle Big Oil è ben più vasta) o alle aziende che ricavano almeno la metà del loro fatturato da tali progetti. Sono esattamente i due punti deboli del regolamento interno che si è data Intesa Sanpaolo. Che peraltro non si è fermata qui: a partire dal 2016 ha foraggiato la filiera delle fonti fossili con quasi 18 miliardi di dollari. Oltre agli 1,2 per trivellare l’Artico, altri 5,4 sono andati all’espansione della produzione di combustibili fossili, 2,2 a gas e petrolio offshore e 1,7 al gas naturale liquefatto.

Sarà la volta buona per Unicredit?

La sua diretta competitor, Unicredit, a gennaio 2022 ha rivisto le proprie policy sul finanziamento di giacimenti non convenzionali, rendendole più solide e «proteggendo i confini artici più completi e rilevanti per il clima», scrive l’Oil & Gas Policy Tracker. Un cambiamento di rotta di cui si sentiva un grande bisogno, visto che la banca milanese finora si è dimostrata generosissima nei confronti di chi trivella l’Artico, con 2,868 miliardi di dollari erogati dalla firma dell’Accordo di Parigi in poi.

Sommando tutti i finanziamenti che Unicredit ha concesso alle fossili nel periodo 2016-2021 si arriva a 36 miliardi di dollari, di cui poco meno di 8 destinati alle 100 aziende impegnate a espandere la produzione di combustibili fossili e 3,8 alle 30 maggiori compagnie attive nell’estrazione di petrolio e gas offshore. C’è da sperare che, quantomeno, ora sia pronta a rispettare queste nuove linee guida in modo rigoroso. Il dubbio è lecito, visto che in passato è già capitato che le ong la cogliessero in flagrante mentre contraddiceva le sue stesse promesse sul carbone.


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