Multinazionali e fisco. Perché al G20 è mancata ancora l’ambizione

L'accordo sulla tassazione delle multinazionali, avanzato dall'Ocse e accolto dal G20, va nella giusta direzione. Ma non mancano criticità

Misha Maslennikov
La riunione dei ministri delle'economia e delle finanze del G20 a Venezia © Mef_gov/Flickr
Misha Maslennikov
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Un “accordo storico”. Una “rivoluzione fiscale”. Sono queste le espressioni (auto)celebrative che hanno qualificato – nelle parole dei rappresentanti istituzionali riportate sui maggiori quotidiani italiani ed internazionali – l’intesa politica sulle nuove regole di tassazione delle multinazionali raggiunta il 10 luglio a Venezia dai ministri delle Finanze dei Paesi del G20. Un beneplacito da parte delle economie più grandi del mondo all’accordo-quadro siglato il 1 luglio scorso da 132 dei 139 Paesi che, da oltre tre anni, partecipano al negoziato in seno all’OCSE sulla riforma della fiscalità internazionale d’impresa.

Il commento di Misha Maslennikov dal G20 di Venezia

Il primo asse dell’accordo-quadro OCSE-G20: nuovi diritti fiscali

Le reazioni dell’ampia comunità internazionale di organizzazioni impegnate nella promozione di misure ambiziose di giustizia fiscale hanno smorzato l’enfasi della narrazione mainstream. I principi ispiratori delle riforme sono condivisibili e passi sono stati intrapresi nella giusta direzione. Ma il livello complessivo di ambizione fin qui raggiunto nel disegno delle nuove regole appare deludente. Gli impatti redistributivi sono particolarmente modesti agli occhi di esperti indipendenti e attivisti del movimento Tax Justice. Soprattutto per i Paesi più poveri e con peso negoziale ridotto.

L’intervento riformatore si sviluppa lungo due direttrici. La prima riguarda la concessione di nuovi diritti fiscali alle giurisdizioni in cui le multinazionali più grandi e redditizie vendono i propri beni e servizi. Si tratta di multinazionali con fatturato globale annuo superiore a 20 miliardi di euro e un margine di profitto globale superiore al 10%.

Una quota (tra il 20% e il 30%) dei profitti (a bilancio delle capogruppo) in eccesso del margine del 10% verrebbe distribuita tra le giurisdizioni-mercato. Ciò in proporzione alle vendite realizzate in ciascun Paese e ivi tassata. L’intervento rispondeva in origine all’esigenza di riconoscere a un Paese il diritto di tassare i proventi dell’attività economica condotta da una corporation da remoto (senza dunque il presupposto di una “presenza fiscale”) nel suo mercato. Ma è stato rivisto, in nome della semplificazione amministrativa, e si applicherà a giganti digitali e non.

Le criticità della misura

Ad essere interessate dalla nuova regola sono appena 78-100 multinazionali. Gli utili soggetti a riallocazione, nell’ipotesi più restrittiva, sono stimati intorno a 87 miliardi di dollari. Appena il 3% dei profitti complessivi a bilancio delle compagnie Fortune Global 500 a metà del 2020. Un ammontare che potrebbe raddoppiare se le nuove regole si applicassero anche al settore finanziario regolato, attualmente escluso. E che potrebbe lievitare ulteriormente se si abbassassero le soglie di ricavi e profittabilità globali e si redistribuisse una percentuale più marcata (almeno il 35%) degli utili in eccesso.

La delegazione italiana al G20 di Venezia © Mef_gov/Flickr

Inoltre, l’allocazione di nuovi diritti fiscali alle giurisdizioni-mercato avverrebbe a condizione che vengano soppresse tutte le imposte sui servizi digitali esistenti. Così come ogni altra misura con cui alcuni Paesi hanno finora cercato unilateralmente di intercettare fiscalmente i proventi dell’attività economica “immateriale” delle multinazionali entro i loro confini.

Una condizione che potrebbe causare ammanchi erariali netti e che ha verosimilmente inciso sulla decisione del Kenya di non aderire all’accordo OCSE. Una recente simulazione di Tax Watch ha rilevato inoltre come le nuove regole, con la contestuale rimozione della web tax britannica, permetterebbero a Google, eBay, Amazon (ad oggi esclusa dall’ambito applicativo della riforma) e Facebook di versare meno imposte nel Regno Unito di quante ne corrispondano oggi.

Infine, ai Paesi che aderiscono alla nuova regola è richiesto di confermare, in modo vincolante, l’adesione a meccanismi di prevenzione di dispute tramite arbitrati internazionali. Condizionalità ritenuta eccessivamente forte, anche con deroghe, da molti Paesi più poveri, per esperienza diretta degli esiti sfavorevoli nelle controversie commerciali internazionali.

Il secondo pilastro dell’accordo: la tassazione minima globale

La seconda direttrice di riforma riguarda l’assoggettamento delle multinazionali residenti nei Paesi firmatari dell’accordo a un livello minimo di tassazione effettiva, fissato al momento ad almeno il 15%, in ciascuna giurisdizione in cui operano. Un intervento che intende porre una battuta d’arresto alla corsa globale al ribasso sulla fiscalità d’impresa. Corsa che ha visto l’aliquota legale media sui redditi d’impresa scendere di quasi 20 punti percentuali nelle ultime tre decadi, a livello planetario. E al contempo disincentivare il trasferimento artificiali dei profitti nei paradisi fiscali societari.

I limiti dell’aliquota minima nella proposta Ocse-G20

Se l’aliquota minima non venisse incrementata, si rischierebbe di veder trasformata l’attuale corsa al ribasso in una corsa verso il nuovo minimo. Non sono in effetti mancati i “primi suggerimenti” di abbassamento delle aliquote legali dell’imposta sui redditi delle società fino al 15% in Paesi come la Danimarca o l’Australia. Sarebbe invece auspicabile un minimo più elevato, tra il 21% e il 25%, in linea con il livello di tassazione effettiva media dei redditi d’impresa nell’area OCSE.

Il 21% rappresenta l’aliquota a cui l’amministrazione Biden dichiara di voler portare il proprio regime di tassazione minima per contribuire in modo più robusto al finanziamento dell’ambizioso piano di rilancio economico post-Covid. Anche Francia e Argentina hanno espresso un simile orientamento al rialzo. Il Forum delle Amministrazioni Fiscali Africane (ATAF) chiede un incremento ad almeno il 20%.

In termini di extra-gettito, di cui beneficerebbero in maggior misura i Paesi di residenza di grandi multinazionali, la scelta conservativa del 15% dovrebbe far riflettere anche il nostro governo. Secondo le stime del neonato European Tax Observatory diretto da Gabriel Zucman, in assenza di cambi di residenza, da disincentivare con misure difensive rafforzate, l’aliquota minima effettiva del 15% porterebbe nelle casse dello Stato italiano introiti annui extra per 2,7 miliardi di euro. I corrispondenti valori con aliquote del 21% e del 25% salirebbero, rispettivamente, a 7,6 e oltre 11 miliardi di euro.

Inoltre, l’aliquota del 15% non rappresenta il livello di tassazione minima effettiva cui le multinazionali verrebbero di fatto assoggettate, grazie a una generosa serie di deduzioni che riducono considerevolmente la base imponibile assoggettata a tassazione minima.  

I prossimi mesi saranno decisivi per una correzione di rotta

Riconosciamo lo sforzo pluriennale di una cooperazione fiscale multilaterale, e comprendiamo gli interessi divergenti degli attori negoziali e le conseguenti “soluzioni di compromesso”. Tuttavia auspichiamo che nell’ultimo miglio negoziato, fino alla fine di ottobre, i tanti nodi tecnici ancora da risolvere possano risultare in misure definitive più ambiziose ed eque.

Occorre prevedere la redistribuzione alle giurisdizioni di mercato di una maggiore quota di profitti a bilancio delle multinazionali nei Paesi di residenza. Ammorbidire le condizionalità. Non minacciare ritorsioni ai Paesi “resistenti”. E, soprattutto, la convergenza su un’aliquota della tassazione minima effettiva di almeno il 21%.

Misha Maslennikov, Policy advisor di Oxfam Italia, ha seguito il G20 di Venezia per conto di Valori.it.