Perché il governo ha scelto di fare cassa con Mps
Il governo ha deciso di vendere il 25% di Mps, su impulso anche di Bruxelles. Una scelta dettata dal bilancio più che da una strategia
L’avvio della privatizzazione di Mps, richiesta da tempo dall’Europa secondo una logica in realtà assai discutibile, suggerisce almeno tre considerazioni. La prima ha a che fare con i compratori del 25% della banca senese messo in vendita dallo Stato. Si tratta in larga misura di fondi che sono stati “invitati” dalle tre banche a cui lo stesso ministero ha affidato il ruolo di advisor.
Tre banche advisor e i fondi amici
Bank of America, Ubs e Jefferies hanno avuto facile gioco nel trovare sottoscrittori fra i grandi fondi da cui le stesse tre banche, incaricate del collocamento, sono partecipate. Anzi, la domanda di acquisti è stata così ampia da indurre il ministero ad aumentare l’originaria percentuale del 20% fino al 25%.
Dunque, la privatizzazione parziale di cui si discuteva ormai da tempo è giunta con rapidità a compimento perché i fondi erano già pronti. E ben informati assai probabilmente sui prezzi, tanto da scattare subito e da ottenere un ampliamento delle partecipazioni disponibili. È evidente, da questo punto di vista che l’acquisto del 25% di Mps fa parte di una strategia più generale coltivata dai grandi fondi, in possesso di una straordinaria liquidità, che punta ad assumere un rilievo crescente nel sistema bancario internazionale. Di cui l’Italia è un pezzo importante per l’imponente mole di risparmio privato.
Oligopoli
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Ormai i grandi fondi sono in tutte le banche e le assicurazioni italiane di un qualche rilievo e mostrano proprio di puntare su una sostanziale onnipresenza per evitare una reale concorrenza sui tassi di interesse praticati a vantaggio dei loro depositanti e su quelli applicati ai prestiti concessi.
La scelta dei fondi indica la mancanza di un “partner industriale”
La scelta dei fondi come azionisti da parte degli advisor ha anche un altro significato: è chiaro che Mps non ha trovato, o non ha voluto trovare, un “partner industriale”. Le azioni in vendita non sono state acquistate da un’altra banca di peso nel tentativo di costituire un nuovo polo creditizio. O di procedere al rafforzamento di quelli esistenti. In realtà, è difficile immaginare una soluzione di tal genere in un contesto bancario che è ormai, come ricordato, così finanziarizzato e dove i fondi sono presenti ovunque.
In un simile panorama la concorrenza creditizia tende a scomparire. E l’oligopolio dei mutui e del risparmio gestito passa attraverso le partecipazioni incrociate e non più da una costosa costruzione di istituti dotati di personale, costi operativi e radicamento territoriale. I fondi comprano quote di tutti i soggetti bancari e così diversificano il loro portafoglio. Senza esporsi in misura eccessiva in quello che dovrebbe essere, e non è più, un mercato del credito.
Per fare cassa, il governo ha accettato le condizioni dei fondi
La seconda considerazione in merito alla vicenda Mps è in parte legata alla prima. Il ministero aveva bisogno di fare cassa per coprire la legge di bilancio e i successivi interventi di spesa. Quindi trovare compratori immediati, come i grandi fondi, era decisamente più semplice piuttosto che promuovere strategie di politica creditizia. I fondi hanno liquidità, pagano subito e sono ostili ad idee di reali fusioni bancarie.
In tale ottica il governo ha deciso di accettare le condizioni dei fondi scegliendo di fare cassa piuttosto che occuparsi in concreto di un sistema bancario finalizzato a sostenere l’economia del Paese. Da questa scelta, del resto, si intuisce che anche il rimanente 39% nelle mani del ministero verrà venduto secondo le stesse modalità. E pertanto che non ci saranno aggregazioni o fusioni destinate a creare “campioni nazionali” del credito.
La posizione criticabile dell’Europa
La terza e ultima considerazione riguarda proprio l’Europa che ha spinto per la privatizzazione considerando la presenza del ministero una forma illegittima di aiuto di Stato. Si tratta dell’ennesima astrusità che non considera, nella fase attuale, l’importanza di un’attività di credito in grado di sorreggere l’economia alle prese con i tassi della Bce. E che, peraltro, mostra di fare differenze tra Paese e Paese perché alla Germania, in tema di aiuti di Stato, è stato obiettato davvero poco.