Il riciclaggio della plastica è l’ennesima bugia delle lobby
Negli ultimi cinquant'anni le lobby industriali hanno promosso il riciclaggio della plastica pur conoscendone i limiti tecnici ed economici
Negli ultimi cinquant’anni l’industria della plastica ci ha raccontato che il riciclaggio fosse un’opzione praticabile, ma non era vero. Secondo uno studio del Center for Climate Integrity, Big Oil e l’industria delle materie plastiche avrebbero consapevolmente mentito, boicottando le spinte a limitare la produzione e incentivando un riciclo che, lo sapevano, non poteva essere una soluzione a lungo termine.
La possibilità di riciclare la plastica era una bugia
Lo aveva già detto profeticamente Primo Levi ne “Il sistema periodico”, descrivendo il polietilene, la più comune delle materie plastiche, come «flessibile, leggero e splendidamente impermeabile: ma è anche un po’ troppo incorruttibile, e non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono». Questa incorruttibilità, così evidente all’occhio del Levi chimico, è stata nascosta a consumatori, politici e legislatori. Perché i produttori non volevano rinunciare ai propri profitti.
Il nuovo studio del Center for Climate Integrity (CCI) fa luce sull’inganno che le lobby di petrolio e plastica hanno perpetuato per decenni, fino a generare la crisi di rifiuti con cui oggi stiamo facendo i conti. Hanno raccontato il riciclaggio della plastica come una possibilità concreta, una soluzione stabile e duratura. Sapevano però che le soluzioni meccaniche non potevano essere efficaci. Troppi limiti, sia tecnici sia economici.
Mentivano sapendo di mentire, come già Big Tobacco, l’industria del gas, quella petrolifera sugli impatti dei combustibili fossili. E, anche in questo caso, sono saltate fuori le prove. Prove che, secondo il CCI, «potrebbero fornire le basi per gli sforzi legali per ritenere i combustibili fossili e altre società petrolchimiche responsabili delle loro bugie e inganni». Richard Wiles, presidente del CCI, non fa sconti: «Le bugie dell’industria petrolifera sono al centro delle due più catastrofiche crisi di inquinamento della storia umana».
Cinquant’anni di bugie sull’impatto ambientale della plastica
Secondo lo studio, negli ultimi cinquant’anni le più grandi società petrolifere e del gas hanno boicottato l’azione normativa sulla plastica. La strategia ha previsto un massiccio investimento in campagne sul riciclaggio, pur sapendo come fosse possibile solo per una percentuale irrisoria del materiale.
Comincia tutto negli anni ‘50, quando la sbornia della plastica monouso è ai suoi inizi. L’industria petrolchimica annusa la possibilità di una domanda potenzialmente perpetua e vi dirotta ingenti investimenti. Passano i decenni, l’opinione pubblica intuisce che qualcosa non va. Dove va a finire tutta la plastica consumata a ritmo quotidiano? A questo punto, inizia una lunga serie di depistaggi.
«Plastics don’t biodegrade», promette nel 1970 il capo della Society of the Plastics Industry (SPI): può andare in discarica, i rifiuti non si degraderanno. Poi è il turno dell’incenerimento: «Riciclare gli imballaggi in plastica? Un’idea eccellente», secondo un dirigente dell’American Can Company. «Ma ricicliamolo in energia».
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Com’è nato il mito del riciclaggio della plastica
Quando queste prospettive rivelano i propri limiti, nasce il mito del riciclaggio della plastica. Siamo all’inizio degli anni ‘80, un mare di plastica continua ad allagare le nostre società. Di lì a poco il buco dell’ozono occuperà le preoccupazioni di larga parte di governanti e opinione pubblica. Per mettere al sicuro profitti, produzione e reputazione, l’industria corre ai ripari. Nasce la Platics Recycling Foundation (PRF), tra i suoi membri Exxon Chemical. La mission? Raccontare gli sforzi che l’industria sta compiendo per risolvere il problema della plastica, senza bisogno di interventi normativi. I suoi stessi studi, però, mostrano che gran parte della plastica non può essere riciclata e che, in ogni caso, il processo è costoso. Economicamente, conviene produrre altra plastica.
Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 si assiste a un’impennata del numero di coalizioni, gruppi, enti di ricerca, associazioni di categoria che promuovono il riciclaggio della plastica. Nel 1988 nasce il sistema di etichettatura che ancora oggi conosciamo: una serie di codici numerici circondati da un triangolo di frecce che si inseguono. Presentato come un supporto ai consumatori per separare i rifiuti, anche questo sarebbe inutile. Secondo CCI, sia i legislatori sia le società che si occupano di riciclaggio «non hanno bisogno» di questo sistema, tanto da contestarlo apertamente in più occasioni.
Il depistaggio sul riciclaggio della plastica entra nelle scuole
A metà degli anni ‘90 alcuni gruppi industriali distribuiscono nelle scuole materiale per formare studenti e insegnanti su come riciclare la plastica. Un esempio è il programma dell’American Plastics Council (APC) “Hands on Plastics: A Scientific Investigation Kit”. Questi sforzi sono ancora in campo, anzi, si stanno intensificando negli ultimi anni, complice la rinnovata attenzione alle questioni ambientali imposta dalla crisi climatica.
Un’inchiestaa del Washington Post rivela che la Society of Plastics Engineers Foundation invia nelle scuole scienziati che raccontano agli studenti che l’umanità dipende dalla produzione continua di plastica. Ogni anno più di cento scuole negli Stati Uniti sono raggiunte da Plastivan, il programma che racconta ai più giovani tutte le meraviglie delle plastiche. Gli insegnanti sono il target di PragerU, che fornisce loro un video educativo che racconta agli studenti che non devono sentirsi in colpa se usano troppa plastica perché, riciclandola, aiutando l’ambiente.
Le aziende petrolchimiche chiamate ad assumersi le proprie responsabilità
L’ultima soluzione prospettata è il riciclo chimico. La tecnica dovrebbe essere in grado di scomporre chimicamente i rifiuti in plastica. Si tratta però, come sottolinea DeSmog, di un processo industriale che è ancora a uno stadio embrionale (negli Usa ha una capacità che non arriva all’1,3% dei rifiuti di plastica generati ogni anno), ha performance peggiori rispetto al previsto e genera, a sua volta, rifiuti pericolosi.
Insomma, secondo CCI è la più recente falsa soluzione destinata a tutelare i profitti delle aziende petrolchimiche, e per fare in modo che non rispondano della crisi che hanno generato. Richard Wiles del Center for Climate Integrity (CCI) le esorta quindi ad assumersi le proprie responsabilità. «Quando le aziende e i gruppi commerciali sanno che i loro prodotti comportano gravi rischi per la società, e mentono al pubblico e ai politici, devono essere ritenuti responsabili. Responsabilità significa fermare la menzogna, dire la verità, e pagare per il danno che hanno causato».