Riuso di edifici dismessi: un’Italia di belle storie in cui tutti vincono
Tognetti (Riusiamo l'Italia): «Il 60% dei 110mila beni culturali architettonici italiani è in abbandono. Destinarli a un riuso mirato li salva dall'oblio e aiuta i giovani»
«Noi proviamo a dialogare con le amministrazioni pubbliche, però vediamo che fanno molta fatica a entrare in questa logica: esiste ancora il feticcio della valorizzazione capitalistica per cui c’è un bene che viene messo all’asta dopo una perizia e l’asta va deserta, e allora si continua con questa catena di perizie e aste che vanno deserte. C’è poi la psicosi della Corte dei Conti. Nell’ordinamento italiano ci sono dei residui che obbligherebbero le amministrazioni ad ottenere il massimo profitto cercando la soluzione nel mercato. Ma molte volte il mercato non c’è più per questi beni.
Le amministrazioni pubbliche non hanno ancora gli strumenti per capire che sta fiorendo un altro mercato, basato più sull’uso che sulla proprietà, e che può essere saturato dall’innovazione sociale.
Dalla sperimentazione nei più svariati campi, artistici e ambientali, legati a sostenibilità o solidarietà… Certo il proprietario non ha più il ristoro che aveva in termini di affitto o di transazioni, ma intanto quel bene viene sottratto al declino».
A parlare è Roberto Tognetti, architetto e coautore del libro Riusiamo l’Italia. Ovvero la trasposizione editoriale di un lavoro condotto a partire dal 2007 dalle idee del gruppo multidisciplinare iperPIANO (formato da architetti e poi sociologi, urbanisti, economisti), e cresciuto fino a dar vita al sito Internet Riusiamo l’Italia e alla sua piattaforma operativa. La logica incompresa cui accenna è quella del riuso e del recupero funzionale mirato del patrimonio immobiliare (pubblico e non) in abbandono.
Il problema è enorme stando alla disamina svolta da Franco Milella (esperto sui temi dello Sviluppo locale e delle Politiche di Coesione) a marzo 2019, nella quale si legge: «degli oltre 110mila beni culturali architettonici censiti nella Carta del Rischio del 2012, oltre il 60% è in stato di abbandono, di degrado, di inaccessibilità alla fruizione, o, come oggi si dice in maniera molto più aulica, “in condizione di grave sottoutilizzo”. Anche il patrimonio pubblico dello Stato, per oltre il 76% detenuto dagli Enti locali, non gode di sorte migliore». Motivo per cui qualunque cosa si faccia per contrastare il disvalore che l’abbandono determina corrisponde a una creazione di valore.
Architetto Tognetti, come si è innescato questo degrado diffuso?
«Con la crisi del 2008 si è strutturato un fenomeno che alcuni studiosi hanno definito “grande contrazione”. Nel settore immobiliare cosa è successo? In Italia abbiamo assistito, in 70 anni dal Dopoguerra ad oggi, a una crescita di popolazione del 26% a fronte di una crescita del patrimonio immobiliare del 400%. E se prima la fluidità del mercato permetteva di colmare questa discrasia con la vivacità delle dinamiche di scambio, in un momento di contrazione rimane lo scheletro dei fattori economici, e si scopre che ci sono stock a cui non corrisponde più una domanda. Oltre a una marea di beni fuori mercato.
Il fenomeno delle aste e degli avvisi pubblici sul dismesso è una cartina di tornasole. Fino ad arrivare ad epiloghi come quello della Bemberg di Novara, sul lago d’Orta, a Gozzano, con 220mila metri quadri di stabilimento e terreni venduti a 75 centesimi al metro quadro, più 10-15 milioni di euro di oneri di bonifica».
Il riuso conviene a tutti, invece…
«Certo. Un tipico esempio di modello “win win”. Ammesso che ci sia un proprietario che prima della crisi percepiva mille euro al mese d’affitto, oggi noi attiviamo una procedura con dei nuovi operatori e riusciamo a garantirgli 200 euro al mese, intanto il bene viene manutenuto. E il proprietario riesce a pagarsi magari le tasse o le incombenze più gravose. E non è detto che queste attività, nel giro di qualche anno, non si consolidino e siano in grado di pagare un affitto regolare.
Per questo ci interessa identificare quegli spazi che sono quasi “pronto uso”, che possano essere dati in comodato, o impiegati dopo una tinteggiata e il cambio della caldaia: chi entra in queste situazioni spesso si accontenta, e magari non usa neanche tutto lo spazio. E così abbassiamo la soglia d’investimento e riabilitazione, e i tempi, venendo incontro a un giovane che abbia un talento da valorizzare o amici con cui buttarsi in un’avventura imprenditoriale»
Si può sistematizzare questo modello?
«Tempo fa ci è stata formulata la richiesta di elaborare un piano industriale per l’Italia nell’ottica del riuso. Stiamo ora lavorando a una sorta di linea guida. Abbiamo calcolato che con un budget importante di finanza pubblica e con gli standard attuali, se il patrimonio di cui scrive Milella dovesse essere aggredito con le politiche di programmazione normali, che puntano alla completa ristrutturazione del bene, ci vorrebbero 250 anni per sistemare tutto.
Con un approccio incrementale, dove si inizia a colonizzare per piccole porzioni, rigenerando il bene, di anni ne basterebbero 56.
E con un po’ di apertura ai privati, con forme di collaborative evolute, potremmo scendere a una decina d’anni».
Mi faccia qualche esempio…
Sul sito ne abbiamo censiti un centinaio, ma molte sono anche esperienze “volatili”. Un caso di scuola è Casa Bossi di Novara. Un grande monumento di Alessandro Antonelli, una casa Borghese di metà dell’800, capolavoro dell’architettura neoclassica, abbandonata da 30 anni in una città ricca del Nord. Mentre il comune, sulla base di un vecchio approccio, ha rinunciato a un contributo di 2 o 3 milioni di euro della Comunità Europea, perché non bastavano per la completa ristrutturazione, noi abbiamo creato nel 2010 un Comitato d’amore per Casa Bossi e, con un’associazione di volontariato di cittadinanza attiva, abbiamo svolto numerosissime attività all’interno (mostre, concerti, presentazioni…), visto che i fondamentali dell’edificio sono assolutamente sani. Ed è diventato un luogo protagonista della cultura della città con zero investimenti, drenando semmai un po’ di risorse mirate solo alle attività».
Il contenuto è più importante del contenitore, quindi…
Sì. Come ci mostra una ricerca recente commissionata dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo sugli spazi abbandonati in provincia. Il risultato è che alcuni di questi spazi sono edifici e monumenti storici da poco restaurati, quindi nuovi di zecca. Ma vuoti. perché mancava un’idea rispondente alla realtà sui contenuti. E così c’è il castello che doveva diventare centro culturale ma non c’è nessuno che interpreta questa funzione.
… con grande spreco di risorse. Mentre i ragazzi, che non ne hanno, che esempio ci danno?
Un caso interessante è quello di Krapannone, un progetto emblematico del riuso. Si tratta di un gruppo di ragazzi della provincia di Vicenza appassionati di skate, che si prendono uno degli infiniti capannoni abbandonati nella provincia.
Cominciano a costruirsi da soli la pista di skate, ad aggregare appassionati, nascono i corsi e le gare, e la comunità di appassionati di questi sport di strada si allarga. E adesso quei ragazzi, due o tre almeno, vivono in gran parte di quel tipo di attività, vendono i gadget e le magliette, e svolgono una sorta di bonifica sociale in una periferia degradata. E questo produce un impatto sociale fortissimo, perché questo è uno sport congeniale al peer-to-peer, dove i ragazzi più grandi possono insegnare a quelli più giovani. Ed è un luogo conviviale dove arrivano anche le famiglie e le mamme, si fa gruppo. Si tratta di un esempio potentissimo. E ce ne sono diversi in Italia.