Russia-Ucraina, la prima guerra nell’era delle criptovalute

La guerra tra Russia e Ucraina si combatte anche sul fronte delle criptovalute. E le mette di fronte alle proprie responsabilità

Piattaforma di scambio di criptovalute © Kanchanara/Unsplash

Decentralizzate, collocate in un limbo per cui non sono né regolamentate né formalmente vietate, fiere della propria fede incrollabile nell’anonimato e della privacy. Le criptovalute per lungo tempo hanno proseguito indisturbate il loro percorso di sviluppo, indifferenti a cambi di governo e crisi bancarie. Ora per loro è arrivato il momento di sedersi al tavolo dei grandi, prendendo atto del loro ruolo – tutt’altro che marginale – nel sistema finanziario internazionale. Anche in guerra. Il conflitto tra Russia e Ucraina ne è la dimostrazione.

Ucraina, il crowdfunding militare si fa con le criptovalute

Ben prima della drammatica notte tra il 23 e il 24 febbraio in cui il presidente russo Vladimir Putin ha dato l’ordine di attaccare, l’Ucraina già faceva appello ai donatori internazionali. Servivano armi per l’esercito e per i volontari intenzionati a difendere il proprio Paese. È nato così un crowdfunding militare, il primo della storia, volto a colmare almeno in minima parte il macroscopico divario tra la spesa ucraina per la difesa e quella russa: poco meno di 6 miliardi di dollari contro 60. Basta selezionare la pagina “dona” di una delle ONG più attive, chiamata Come Back Alive, per trovare anche Bitcoin, Ethereum e Tether come metodi di pagamento. E non è un caso.

https://twitter.com/BackAndAlive/status/1499422738024386569

Già nel 2021 questa e altre organizzazioni avevano rastrellato 570mila dollari in criptovalute, con un aumento del 900% sull’anno precedente. Con lo scoppio della guerra, anche il governo ucraino ci ha messo la faccia chiedendo apertamente donazioni in Bitcoin, Ethereum e Tether. Da allora, sono stati raccolti 60,5 milioni di dollari. Spicca una singola transazione da 1,86 miliardi di euro; con ogni probabilità sono i proventi della vendita dell’NFT creato da Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, insieme all’artista digitale Pak. Ma la cifra complessiva cresce di ora in ora.

I cittadini ucraini si gettano a capofitto sulle criptovalute

Poi ci sono i cittadini, quelli che non vogliono (o non possono) imbracciare le armi ma soltanto mettere in salvo sé stessi e i propri cari. Per molti di loro le criptovalute sono una presenza familiare. L’Ucraina nel 2021 si è piazzata al quarto posto del Global Crypto Adoption Index, dopo Vietnam, India e Pakistan. Merito anche di un governo che ha introdotto una legge molto favorevole nei loro confronti, pur senza riconoscerle come valuta di corso legale.

Non c’è dunque da stupirsi se tante persone comuni, temendo il tracollo dell’economia nazionale (e quindi della moneta) e non potendo ritirare valuta straniera allo sportello della loro banca, hanno convertito i loro risparmi in Bitcoin o simili. Lasciandosi guidare dalla vulgata che li dipinge come il bene rifugio ideale, una sorta di oro digitale, perché nessuna banca centrale può stamparne a dismisura abbassandone il valore. Nei fatti, però, finora tali valute si sono comunque dimostrate molto volatili. Una loro repentina svalutazione manderebbe letteralmente in fumo i risparmi di migliaia di famiglie in fuga.

Una exit strategy per gli oligarchi russi

Accade qualcosa di molto simile anche a parti invertite. Nei convulsi giorni dell’invasione russa si è fatto un gran parlare di una subitanea impennata degli scambi tra rublo e bitcoin; in effetti giovedì 24 febbraio hanno raggiunto un valore (1,5 miliardi di rubli) che non si toccava dal mese di maggio 2021. È bastato qualche giorno però perché Bloomberg gettasse acqua sul fuoco, facendo notare che il volume in realtà oscilla di giorno in giorno. Insomma, parlare di corsa alle criptovalute da parte dei cittadini russi è forse un’esagerazione.

Quel che è certo è che una moneta anonima, decentralizzata e virtuale, pressoché impossibile da tracciare, può suonare incredibilmente allettante per quegli oligarchi russi vicini a Putin e, per questo, colpiti in prima persona dalle pesantissime sanzioni occidentali. Ed è una piccola rivoluzione il fatto che abbiano preso posizione addirittura le principali piattaforme di scambio (exchange). Le stesse che per anni sono rimaste impassibili di fronte alle accuse di essere terreno fertile per il riciclaggio e gli affari illeciti. Coinbase ha bloccato 25mila wallet riconducibili a persone o aziende russe sospette; Binance ha fatto altrettanto, senza diffondere maggiori dettagli sul numero di utenti coinvolti.

Joe Biden firma l’ordine esecutivo sulle criptovalute

Fin qui le iniziative spontanee da parte delle piattaforme. E i governi? Il 9 marzo il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha compiuto un passo che per anni è stato al centro di ipotesi, speculazioni e timori: ha firmato il suo primo ordine esecutivo sulle criptovalute.

Il valore simbolico è enorme ma, nei fatti, i trader possono tirare un sospiro di sollievo. Il documento infatti non impone divieti veri e propri, ma chiede al dipartimento del Tesoro e ad altre agenzie federali di indagare i rischi e i benefici degli asset digitali e della tecnologia sottostante, focalizzandosi su sei priorità: tutela dei consumatori e degli investitori; stabilità finanziaria; finanziamenti illeciti; leadership statunitense nel sistema finanziario globale e competitività economica; inclusione finanziaria; innovazione responsabile.

Sulla scia della Cina, Biden preme anche per l’introduzione del cosiddetto dollaro digitale (Central Bank Digital Currency, CBDC), cioè un’alternativa alle criptovalute, con una fondamentale differenza: il controllo da parte della Federal Reserve.

La richiesta-shock all’ICANN: spegnere Internet in Russia

Se serviva un’altra prova del fatto che la guerra si combatta anche sul fronte digitale, la troviamo nel botta e risposta tra il governo ucraino e l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). Sentiamo di rado questa sigla ma ci abbiamo a che fare ogni giorno. Perché è l’organizzazione senza scopo di lucro che governa l’architettura di Internet, istituita nel 1998 dal governo statunitense.

Il 28 febbraio l’ICANN ha ricevuto una lettera da Mykhailo Fedorov, vicepremier e ministro per la Digital transformation ucraino. Gli «atroci crimini» commessi dalla Russia, sostiene, sono stati resi possibili anche da una «macchina della propaganda che ha fatto uso di siti web» e dai «numerosi attacchi» alle infrastrutture digitali ucraine. Da qui la richiesta shock: revocare i domini nazionali .ru, .рф e .su, disattivare i loro certificati di sicurezza SSL e «spegnere» in Russia il sistema DNS, cioè quello che traduce i nomi in indirizzi IP. In poche parole, escludere la Russia da internet.

Neutralità di internet
Anche la neutralità di internet inizia a essere messa in discussione © Sara Kurfess/Unsplash

Verso un Internet spaccato a metà

La risposta? Un no secco. Motivato sia da ragioni tecniche sia dalla stessa ragione d’essere di ICANN, cioè permettere a Internet di funzionare. L’esito era prevedibile, ma la richiesta rappresenta comunque un precedente. Perché mette in discussione uno dei princìpi cardine su cui si regge Internet, la neutralità.

Ben prima della guerra c’era chi si immaginava che in futuro la Rete sarebbe stata spaccata a metà, come conseguenza della crescente rivalità tra Usa e Cina. La profezia sulla biforcazione di Internet – ribattezzata Splinternet – è di Eric Schmidt, amministratore delegato di Google dal 2001 al 2011. Oggi che la Russia si trova completamente isolata da social network e altre piattaforme occidentali (da TikTok a Netflix), un po’ per sua scelta e un po’ perché ne è stata esclusa, Vladimir Putin potrebbe rispolverare il suo progetto di costruire una sorta di Internet nazionale. Una Rete a uso e consumo del regime e della sua volontà di censura. La fattibilità di un progetto del genere però è tutta da vedere, visto che l’industria tech russa appare ancora molto acerba.