Lo sportwashing degli arabi e il pensiero neocoloniale

Le mire arabe sul Manchester United non sono legate alla presunta volontà di ingraziarsi la platea ma a meri ragionamenti economici

Una veduta aerea dell'Old Trafford, lo stadio del Manchester United © Tom McAtee/iStockPhoto

Mentre sulla stampa britannica infuria il dibattito su Roald Dahl, e la parte progressista giustamente rivendica il continuo mutare del linguaggio (che la cancel culture è un’invenzione a tavolino tanto quanto i Protocolli di Sion), allo stesso tempo, la stessa stampa progressista parla di sportwashing a proposito del prossimo acquisto del Manchester United da parte di uno sceicco del Qatar.

Come se davvero una delle economie più solide del Pianeta, da cui dipende l’approvvigionamento energetico dell’intero Occidente, avesse bisogno di comprare Messi o il Manchester United per farsi amare dai suoi dipendenti: gli occidentali appunto. Come se davvero uno Stato sovrano che si è già comprato metà delle città europee, avesse bisogno di comprarsi la squadra di calcio di quelle città per farsi amare dai suoi sudditi.

Certo, le monarchie del Golfo sono dittature violente e reazionarie, reprimono il dissenso e sopprimono i diritti. Ma visto che da loro compriamo le energie fossili che garantiscono il nostro modello di sviluppo, e già che ci sono devastano il Pianeta, e sono loro i nostri migliori clienti quando vendiamo loro armi, ecco, forse potremmo evitare di lamentarci solo quando organizzano i Mondiali. O quando comprano le squadre di calcio. Facendo finta di nulla per tutto il resto.

Anche perché la Qatari Islamic Bank dello sceicco Jassim bin Hamad al-Thani (imparentato con la famiglia reale) che sta per comprare il Manchester United a una cifra tra i 4 e i 5 miliardi di dollari non è poi tanto peggio degli altri possibili acquirenti. E questo non per assolverla in un deleterio “così fan tutti”, ma perché le proprietà calcistiche andrebbero criticate per il mancato rispetto dei diritti umani e per la devastazione ambientale anche quando i loro portavoce sono anziani uomini bianchi dai modi affabili e dai vestiti eleganti.

La QIB non è peggio della famiglia Glazer, che nel 2005 comprò lo United con una spericolata operazione di acquisto a leva (o a debito), ovvero senza mettere un soldo e caricandolo di debiti (oggi vicini al mezzo miliardo) mentre loro si dividevano i guadagni. Né del fondo Elliott, già proprietario del Milan, che quando c’è da devastare le economie di interi Paesi come l’Argentina e il Congo è in prima linea. O del miliardario locale, il baronetto Jim Ratcliffe, che ha fatto i miliardi devastando il Pianeta con la petrolchimica e ha sostenuto la Brexit, tanto lui ha la residenza nei paradisi fiscali.

Il fatto che i club della Premier League facciano gola non solo agli emiri (già proprietari con Abu Dhabi del Manchester City e con l’Arabia Saudita del Newcastle) ma anche ai fondi d’investimento americani (United, Chelsea, Liverpool e via dicendo) dovrebbe bastare a far comprendere che non si tratta di sportwashing, ma di investimenti economici. Secondo Deloitte, la Premier alla fine di quest’anno, con la negoziazione dei diritti tv negli Stati Uniti, raggiungerà infatti un fatturato complessivo di 7 miliardi di dollari. Nel 2023 acquistare un club della Premier significa guadagnare un sacco di soldi, non farsi voler bene da sessantamila abbonati allo stadio.

Come i Mondiali di Qatar 2022 sono stati un investimento sulle infrastrutture del Paese, sulla militarizzazione e sullo sviluppo tecnologico – investimento partecipato dalle aziende occidentali nei guadagni e nel massacro dei lavoratori migranti – così lo sono gli investimenti nelle squadre della Premier. Immaginare davvero che si debba comprare il Manchester United per fare un’operazione di sportwashing, come scrivono i quotidiani progressisti britannici, è un pensiero squisitamente neocoloniale. E in effetti il Regno Unito, quanto a pensieri e pratiche coloniali, ha poco da invidiare a chiunque. Nei Paesi arabi ne sanno qualcosa.