La Svizzera, i carbon credit e gli obiettivi climatici “delocalizzati” in Thailandia
Svizzera e Thailandia completano il primo trasferimento di riduzioni di emissioni di gas ad effetto serra nel quadro dell'Accordo di Parigi
La Svizzera è il primo Stato al mondo a contribuire ai propri obiettivi climatici attraverso lo scambio di carbon credits, per la precisione con la Thailandia. In altre parole, Berna ha deciso di finanziare un progetto per la mobilità sostenibile all’estero. Ne conteggerà le emissioni risparmiate e le contabilizzerà. Come avrebbe fatto per un analogo progetto in patria.
Un esempio di collaborazione, previsto dall’Accordo di Parigi ma finora mai messo in pratica compiutamente. Un vanto, in termini di comunicazione e visibilità. Sui reali benefici per il clima, però, è lecito nutrire qualche dubbio.
Cosa prevede l’articolo 6.2 dell’Accordo di Parigi
Già il protocollo di Kyoto aveva inaugurato i meccanismi flessibili per lo scambio di “diritti“ alla dispersione di emissioni. Concretamente, chi abbatte i propri gas a effetto serra più di quanto previsto può ottenere dei crediti che può cedere a chi, al contrario, non è stato in grado di centrare i propri target. Il tutto introducendo un tetto complessivo alle emissioni (e dunque ai relativi crediti): l’idea è di rendere vantaggioso economicamente essere virtuosi. E, al contrario, imporre un onere a chi non lo è.
Nel 2015 le nazioni che fanno parte dell’Unfccc (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) hanno siglato l’Accordo di Parigi, con cui si impegnano a mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali, cercando di restare il più possibile vicini agli 1,5 gradi. I singoli Stati sono tenuti a presentare le proprie NDC (Nationally determined contributions), piani non vincolanti in cui illustrano i propri obiettivi di riduzione delle emissioni e le azioni con le quali intendono raggiungerli.
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L’articolo 6 dell’Accordo di Parigi prevede che, per contribuire ai propri NDC, si possa fare ricorso anche alle emissioni risparmiate in uno Stato estero. Tecnicamente si parla di ITMOS, Internationally transferred mitigation outcomes (scambio di risultati di mitigazione). I meccanismi possibili sono diversi: può esserci un coordinamento da parte delle Nazioni Unite (articolo 6.4), oppure due o più Stati possono stringere un accordo (articolo 6.2). In quest’ultimo caso, lo Stato A si prende in carico un progetto che riduce le emissioni nello Stato B. Dopodiché, lo Stato finanziatore può decidere se intestarsi le emissioni risparmiate oppure se venderle a un altro Stato che ne ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi climatici. L’importante è non contabilizzarle due volte (evitare cioè quello che viene definito double counting).
Lo scambio di risultati di mitigazione tra Svizzera e Thailandia
Finora sono stati siglati 69 accordi bilaterali che rientrano nell’articolo 6.2, ma molti si sono dovuti scontrare con complessità tecniche e legali. Il primo a essere effettivamente realizzato è quello tra Svizzera e Thailandia. L’8 gennaio la Fondazione KliK, con sede a Zurigo, ha fatto sapere di aver acquistato 1.916 ITMOS dalla società thailandese Energy Absolute Public Co. ITMOS che la stessa Fondazione KliK si è attribuita nel registro elvetico per lo scambio di quote di emissioni. La Svizzera, di conseguenza, farà affidamento anche su questi risultati di mitigazione per adempiere alle proprie NDC. Viceversa, la Thailandia li sottrarrà al suo inventario dei gas serra, evitando così il doppio conteggio.
Gli ITMOS sono legati al Programma per i bus elettrici di Bangkok, un progetto per l’elettrificazione dei quasi 2mila veicoli pubblici in circolazione nella capitale, gestiti dalla società privata Thai Smile Bus. La Fondazione KliK dunque ha commissionato il piano, che è stato messo in atto dalla società South Pole insieme alla thailandese Energy Absolute. Le risorse aggiuntive derivanti dalla vendita degli ITMOS coprono la differenza di prezzo tra i bus tradizionali e quelli elettrici. Di per sé, infatti, l’investimento non sarebbe stato sostenibile per gli investitori privati. Rimpiazzando i vecchi autobus con motore a scoppio e mettendo in funzione le nuove linee, si dovrebbero evitare emissioni per 500mila tonnellate di CO2 nel periodo compreso tra il 2022 e il 2030.
Questa iniziativa «mostra che il complesso meccanismo che sottostà all’approccio cooperativo sta portando a riduzioni nelle emissioni di CO2 – commenta con entusiasmo Chatrapon Sripratum di Energy Absolute Public Co -. Il successo nella nostra attuazione del programma sta contribuendo alla decarbonizzazione dell’economia e può ispirare altri attori del settore privato, in Thailandia e nel mondo, a intensificare la loro azione per il clima».
I benefici per il clima sono reali?
A leggere i comunicati stampa, sembra insomma un indiscutibile successo. Di sicuro lo è per la Thailandia, che ha guadagnato una flotta di autobus elettrici, e per la Svizzera, che si è intestata una consistente riduzione delle emissioni di CO2. Ma vale lo stesso anche per il clima? Uno studio condotto da Alliance Sud (centro di competenza svizzero per la cooperazione internazionale e la politica di sviluppo) e Fastenaktion solleva pesanti dubbi in merito.
Il requisito di base per questi scambi di riduzione delle emissioni è l’addizionalità. In questo caso dunque bisogna dimostrare che, senza questo progetto, l’operatore del servizio pubblico non avrebbe mai comprato e messo in funzione gli autobus elettrici prima del 2030. Considerato che Energy Absolute è una società specializzata nelle tecnologie verdi, sostengono i ricercatori, è difficile immaginare che volesse acquistare autobus con motore a scoppio. Tanto più lavorando con un operatore come Thai Smile Bus che aveva già iniziato a mettere in circolazione i bus elettrici, anche prima del 2022.
La prova del nove, dunque, è quella dei costi: l’addizionalità esiste nella misura in cui quell’investimento è possibile solo grazie ai proventi degli ITMOS. Peccato però che la documentazione sul progetto fornisca informazioni molto lacunose sui costi e che gli attori coinvolti si siano rifiutati di aggiungere dettagli. Nemmeno il documento con il calcolo delle emissioni risparmiate è pubblico, così come le condizioni contrattuali. In sintesi, secondo la ricerca, questa addizionalità «nella migliore delle ipotesi non è trasparente; nella peggiore, non esiste».
Una questione di giustizia climatica
Di per sé, chiarisce l’analisi, non c’è niente di male nel fatto che a Bangkok circolino autobus elettrici. Quello che fa riflettere, piuttosto, è il ruolo della Svizzera. Che Alliance Sud, senza mezzi termini, definisce come un «fallimento nell’uso dei meccanismi di partnership previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi per raggiungere ambizioni più elevati e una maggiore protezione del clima».
Lo Stato elvetico, infatti, si è ripromesso di tagliare le emissioni del 50% rispetto ai livelli del 1990, entro il 2030. Ma, per raggiungere questo traguardo, fa affidamento in modo preponderante proprio su accordi bilaterali stretti con gli Stati esteri: non solo Thailandia, dunque, ma anche Senegal, Perù, Marocco e altri. Questa sarebbe una scelta puramente politica, per poter centrare i propri obiettivi sulla carta senza però intraprendere riforme entro i confini nazionali, per non correre il rischio di scontentare gli elettori. Transizione ecologica sì, insomma, ma non a casa nostra.
In gioco non c’è soltanto una questione contabile, ma un principio più alto. Quello della giustizia climatica. Il principio per cui, storicamente, pochi Stati industrializzati hanno disperso in atmosfera gigantesche quantità di gas ad effetto serra. Innescando una serie di conseguenze che sono soprattutto i Paesi più poveri a subire. Dopo aver beneficiato di tutti i vantaggi dello sviluppo, ora questi Paesi dovrebbero quanto meno assumersi le loro responsabilità. Il che significa decarbonizzare il proprio sistema economico, il prima possibile. Senza cercare scorciatoie o scappatoie.