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Olio di palma: ecco chi ha bruciato le foreste che non ricresceranno mai

Molti grandi marchi si riforniscono ancora da chi sfrutta lavoratori e brucia foreste: tra loro, Colgate, Nestlé, Pepsi, L'Oreal, Kellogg's. Caso virtuoso: Ferrero

produzione olio di palma: 4 October 2007, Kapuas river, Kalimantan - fonte rapporto Greenpeace 'Final Countdown', settembre 2018

Conto alla rovescia per l’olio di palma. Perché mancano circa 500 giorni al 2020. Cioè all’anno fissato dalle multinazionali in accordo con l’ong Greenpeace per avere una filiera sostenibile. Ovvero, una filiera che finalmente sia in grado di funzionare senza sfruttare i lavoratori, né bruciare e disboscare le foreste, producendo tonnellate di gas serra. E che non distrugga le antiche torbiere, cuore delle foreste primarie e “serbatoio” di carbonio formatosi attraverso migliaia di anni di storia della Terra.

La posta in gioco è alta, del resto. Ci sono in gioco i target 5 e 7 inclusi negli obiettivi strategici della Convenzione sulla diversità biologica. C’è di mezzo la credibilità dei produttori e commercianti internazionali che, di fronte alle critiche dell’opinione pubblica, hanno promesso di rendere sostenibile la loro produzione di olio.

Ma soprattutto in ballo ci sono gli habitat di quasi 200 specie animali a rischio di estinzione, e la salute di chi vive soprattutto in Indonesia e Malesia (da sole coprono oltre l’80% della produzione mondiale). Lì dove i roghi appiccati per fare spazio alle piantagioni di palme da olio costringono le persone a respirare fumi e ceneri.

le specie animali a rischio a causa della produzione insostenibile di olio di palma – fonte IUCN – https://www.iucn.org/resources/issues-briefs/palm-oil-and-biodiversity

Intanto però il tempo passa e troppo poco è cambiato. Così l’organizzazione ambientalista internazionale ha deciso di aumentare la pressione su produttori, intermediari e grandi marchi. Lo aveva già dato a intendere a marzo 2018 quando uscì il documento Moment of truth (Momento della verità). Ma a distanza di pochi mesi ecco rincarata la dose con un altro circostanziato rapporto intitolato Final Countdown (Conto alla rovescia finale), forse ricordando un’omonima hit degli anni ’80 che di fuga dalla Terra parlava.

Wilmar, colosso globale…

All’indice va senz’altro il maggior operatore globale sul mercato, Wilmar International. La compagnia, quotata alla Borsa di Singapore, commercia infatti circa il 40% dell’olio di palma. Membro della RSPO (cioè la tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile) dal 2005, alla fine del 2017 aveva una superficie totale coltivata a palma da olio di quasi 240mila ettari (68% in Indonesia, 24% nel Borneo malese, 8% in Africa).

E benché Wilmar si sia impegnata con Greenpeace ad applicare i principi per una filiera NDPE (No Deforestation, no Peat, no Exploitation, cioè No deforestazione, no torbiere, no sfruttamento), non sta pretendendo lo stesso standard dai suoi fornitori terzi. Un problema serio, visto che questi ultimi coprono l’80% del suo approvvigionamento di olio.

chi acquista olio di palma da Wilmar, il maggior produttore globale – fonte Greenpeace, rapporto Final Countdown, settembre 2018

Il Regno Unito in fiamme dal 1990

Ma ancor più sotto accusa sono venticinque importanti produttori di olio di palma dai nomi pressoché sconosciuti al grande pubblico in Occidente. Sono i cosiddetti dirty producers, cioè i produttori “sporchi” – letteralmente -, e si chiamano Anglo-Eastern Plantations, Austindo Nusantara Jaya. Considerati «responsabili non solo di deforestazione, ampliamento illegale delle proprie piantagioni e incendi, ma anche di sfruttamento dei lavoratori».

In buona parte grazie a loro 24 milioni di ettari di foresta pluviale, poco meno della superficie dell’intero Regno Unito, sono stati rasi al suolo tra il 1990 e il 2015 (dati ufficiali del Governo indonesiano riportati da Final Countdown). E ancora dalla fine del 2015 altri «130 mila ettari di foresta pluviale sono stati distrutti, il 40% dei quali in Papua, una delle regioni più ricche di biodiversità del Pianeta».

Olio di palma: chi fa affari con gli “sporchi produttori”

Ma se “sporchi” sono i produttori, che possiamo dire delle compagnie che, pur sapendo cosa succede in Indonesia e Malesia, pur avendo visto le foreste in fiamme e il fumo che cala sui villaggi, continuano a intrattenere rapporti commerciali con loro?

Multinazionali potenti e note che potrebbero indirizzare il cambiamento, e sulle quali si concentra perciò la pressione mediatica degli ambientalisti. A cominciare da quella di Martina Borghi, responsabile italiana della campagna Foreste di Greenpeace. «Colgate-Palmolive, General Mills, Hershey, Kellogg‘s, Kraft Heinz, L’Oreal, Mars, Mondelez, Nestlé, PepsiCo, Reckitt Benckiser e Unilever  – scrive -hanno acquistato olio di palma da almeno venti di questi produttori. Wilmar, il più grande operatore mondiale di olio di palma, da almeno diciotto».

Una strategia, quella della pressione sulle corporations, che sembra peraltro pagare. Confrontando una stessa tabella pubblicata a marzo e aggiornata a settembre 2018, si vede infatti un miglioramento dei livelli di trasparenza tra chi ha condiviso con Greenpeace i principi  NDPE.

E anche se nessuno dei marchi ha reso ancora pubblica la lista completa delle proprie fonti di produzione di olio di palma, passi avanti si sono fatti sul terreno dei mulini (cioè gli impianti dove il frutto viene spremuto) e degli intermediari.

Quei 16 mld spesi in salute (e temperatura) nel 2015

Insomma, pur consapevoli che né Greenpeace né altre grandi organizzazioni ambientaliste, come WWF, vogliono uno stop totale alla produzione di olio di palma, la questione da risolvere è chiara. I volumi attuali non sono compatibili con una filiera davvero sostenibile sul piano sociale e ambientale, e perciò il processo di cambiamento va accelerato.

confronto produzione per ettaro tra olio di palma e alternative – fonte Oil World 2016

Anche per non favorire altri oli che consumano molto più suolo per la stessa quantità di prodotto. Evitando inoltre gli enormi costi sanitari e ambientali che il business as usual comporta.

A mostrarcelo è stato il mese di luglio 2015, coi suoi devastanti incendi boschivi e di torbiere distribuiti su vaste aree di Sumatra, Kalimantan e Papua. Roghi che costrinsero la chiusura di scuole e uffici, spingendo a tal punto verso l’alto le emissioni di gas climalteranti da far sì che in quei giorni l’Indonesia sopravanzasse persino gli Stati Uniti. Per non dire della densa foschia di fumo e cenere che si diffuse in tutto Sud-Est asiatico.

Una nube non senza effetti sulla salute umana. Tant’è che «i ricercatori di Harvard e della Columbia University stimano che 100mila persone moriranno prematuramente per malattie respiratorie legate alla foschia del 2015. Mentre la Banca Mondiale ha calcolato il costo del disastro in 16 miliardi di dollari».

Ferrero e le altre sulla strada giusta

Spese che non possiamo permetterci, per ridurre le quali lo sforzo delle Big Companies è imprescindibile. «Una delle multinazionali più all’avanguardia rispetto alla sostenibilità dell’olio di palma» – parola di Martina Borghi – ce l’abbiamo in casa e si chiama Ferrero.

Un ravvedimento recente ma deciso, quello della società di Alba, che il 17 novembre 2015 ha aderito al Palm Oil Innovation Group (POIG), il gruppo che – in qualche modo – ha sopravanzato l’RSPO, giudicato debole e poco credibile da alcuni. Il POIG prevede un impegno contro la deforestazione. E l’impegno viene formalizzato da un accordo, con la possibilità che il rispetto di questo impegno sia verificata da enti terzi.

Ferrero, come le sue concorrenti, non è ancora al di sopra di ogni critica. Greenpeace ne ha comprovato il legame con 4 produttori di olio di palma considerati “critici” (Felda, Genting, Wilmar e Salim). Ma insieme a Danone e Pz Cussons è senz’altro tra le più vicine a tagliare i ponti con i produttori più distruttivi.

Inoltre, «Dopo la pubblicazione del rapporto “Momento della Verità”, Ferrero ha deciso di anticipare al 21 marzo la pubblicazione dell’elenco dei mulini e dei gruppi di produttori da cui acquista olio di palma, precedentemente prevista per maggio 2018. E aggiornerà l’elenco dei propri fornitori ogni sei mesi».