L’addio ai motori termici sarà un successo solo con equità, redistribuzione e coerenza
La decisione comunitaria di vietare le vendite di auto a motore termico nuove, dal 2035, è un successo. Ma esistono alcuni oggettivi rischi
Martedì 14 febbraio il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva il progetto di regolamentazione che porrà fine alla vendita dei veicoli nuovi a motore termico, a partire dal 2035. Un accordo definito “storico”, che non ha mancato di dividere. I voti a favore sono stati infatti 340, 279 quelli contrari e 21 le astensioni.
Entro dodici anni, dunque, non sarà più possibile comprare un’automobile nuova a benzina o diesel presso un concessionario. Si tratta di un passo in avanti decisivo, che riconcilia mobilità e salute pubblica, di fronte al quale non si può che essere soddisfatti. Secondo uno studio pubblicato nel 2022 dalla rivista Lancet Planetary Health, infatti, l’esposizione all’inquinamento dell’aria causa ogni anno 6,7 milioni di morti nel mondo. In Europa, siamo attorno a 300mila vittime per polveri sottili, ossidi di azoto e altri agenti nocivi, che si concentrano in gran parte proprio nei grandi centri urbani.
Chiunque abbia storto il naso di fronte all’accelerazione imposta dall’Unione europea non dovrebbe mai dimenticarlo: in gioco non ci sono solo interessi economici, ma la vita di centinaia di migliaia di persone. E le malattie non stanno a guardare il conto in banca, quando arrivano.
Né possono essere accettate le francamente risibili critiche di chi si erge a paladino dei posti di lavoro. Primo, perché numerosi studi dimostrano che effettuare la (in ogni caso imprescindibile) transizione ecologica consentirà di conservare molti più impieghi e mantenere molta più ricchezza rispetto all’ipotesi di un’inazione climatica. Se lasciassimo infatti aumentare la temperatura media globale al ritmo attuale, i costi – economici, sociali e ambientali – sarebbero infinitamente più alti rispetto a quelli che dovremo affrontare per rendere sostenibile il nostro modello di sviluppo. E ciò anche includendo una necessaria pianificazione sia sul fronte delle terre rare, indispensabili per la produzione di batterie, sia sullo smaltimento di queste ultime (sul quale siamo ancora troppo indietro).
In secondo luogo, l’industria automobilistica si è già da tempo attrezzata per il cambiamento. Anche quando alcuni decisori politici – il riferimento all’ex ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani non è casuale – hanno tentato di frenare la transizione. Gli investimenti e la ricerca sono già concentrati sui motori elettrici: in questo senso i produttori non hanno atteso le decisioni di Bruxelles.
Terzo, perché anche se i punti uno e due non fossero veri, non è accettabile barattare soldi o strategie industriali con la vita di uomini, donne e bambini.
Detto ciò, esistono tuttavia due questioni dirimenti che non vanno sottovalutate. La prima è strettamente legata al concetto di “transizione giusta”. Come in ogni fase di cambiamento, a rischiare di più sono coloro che risultano più vulnerabili. Il problema di chi utilizza il mezzo privato per recarsi al lavoro, per accompagnare i figli a scuola o parenti anziani a fare controlli medici esiste.
Sta ai poteri pubblici (perché i privati hanno un altro dna) garantire che nessuno resti indietro: servono stanziamenti per accompagnare la transizione, rendendola equa. Per farlo, gli strumenti adatti esistono, non si tratta di inventare nulla: le tasse sulle rendite da capitale, sui grandi patrimoni, sugli extra-profitti delle multinazionali, sulle transazioni finanziarie. Tutte misure che non colpiscono in alcun modo il 99% della popolazione, ma solo l’1% più fortunato. Che rimarrà comunque tale, anche se finalmente si dovesse operare una manovra di vera redistribuzione della ricchezza.
Non si può dunque imporre una rivoluzione nella mobilità senza prevedere ammortizzatori sociali forti e mirati. E pazienza – ripetiamo: pazienza – se qualcuno se ne approfitterà, se qualche evasore che dichiara redditi da indigente incasserà aiuti di cui non avrebbe bisogno. È una questione di pesi, misure e bilanciamento dei vantaggi (esattamente come nel caso del reddito di cittadinanza).
Sarebbe inoltre un errore campale non sfruttare la transizione per irrobustire, ampliare, rendere più efficienti, sicuri e capillari i mezzi di trasporto pubblico. Sostenere e diffondere i veicoli “alternativi”, a partire dalle biciclette. Permettere alla cultura dello “sharing” di penetrare, finalmente e definitivamente, nelle nostre società.
La seconda criticità che sorge dopo la decisione di superare i motori termici è legata invece alla coerenza. Le auto elettriche sono dotate di batterie, al cui interno si immette energia. Come noto, in loco questi mezzi non producono quasi nulla in termini di agenti inquinanti (il “quasi” è legato, ad esempio, alle polveri sottili che disperdono i freni al momento dell’utilizzo). Ma se non ci chiediamo in che modo abbiamo prodotto quell’energia con cui ricarichiamo le batterie, dal punto di vista del bilancio climatico rischiamo di generare un’enorme partita di giro.
Se in una nazione come la Polonia, la cui produzione di energia nel 2020 è stata ancora garantita per oltre il 70% dal carbone, si procedesse all’elettrificazione del parco auto senza modificare anche il mix energetico, non si sarebbe fatto altro che delocalizzare le emissioni. In altre parole, se anziché bruciare combustibili fossili nei motori a scoppio delle auto lo si continuerà a fare nelle grandi centrali, avremo migliorato la qualità dell’aria nelle città, ma non avremmo sostanzialmente cambiato nulla in termini di emissioni globali di gas ad effetto serra.
Servirà dunque coerenza, appunto: la transizione ecologica deve riguardare ogni aspetto dei nostri sistemi di produzione. E forse sarà la volta buona che avremo il coraggio di mettere in discussione questo modello di sviluppo. Perché è proprio questo modello di sviluppo che ci ha portati (sia socialmente che dal punto di vista ambientale) a questo punto. A costringerci a porre rimedio, a caro prezzo, e in fretta e furia.