Tutte le squadre a un unico padrone

Entro il 2050 tutte le squadre che giocheranno la Champions League apparterranno a un’unica persona

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Quando, nell’ottobre del 2019, le due squadre della Red Bull si affrontarono nei gironi di Europa League, fu come se si fosse aperto uno squarcio sul futuro. E oggi quel futuro è già collassato nel presente. Allora erano circa un centinaio le squadre che appartenevano a poco meno di quaranta “multiproprietari”. Più del doppio di quante erano tre anni prima, nel 2016. Dopo altri tre anni, nel 2022, quei numeri sono raddoppiati di nuovo. Oggi, secondo il centro di ricerca svizzera CIES Football Observatory, ci sono circa duecento squadre in mano a multiproprietà.

Già nell’estate del 2017, due anni prima della sfida in Europa League tra Red Bull Lipsia e Red Bull Salisburgo, quando le due squadre rischiavano di incrociarsi in Champions League, la Uefa si era affrettata a dire che non ravvisava alcun problema. Il fatto che le due squadre avevano lo stesso nome, lo stesso proprietario e gli stessi dirigenti non provava ci fosse alcuna violazione dell’articolo cinque, quello per cui «nessuna persona fisica o giuridica può avere un’influenza determinante su più di un club che partecipa a una competizione Uefa».

Anche le maglie erano uguali. Per non parlare dei giocatori che passavano da una squadra all’altra (i vari Keita, Szoboszlai, Upamecano e molti altri). Ma tutto questo non bastava. Agli occhi dei burocrati di Nyon, le due squadre della Red Bull non avevano lo stesso padrone. O forse quel padrone, che già investiva così tanto nella Formula Uno ed era pronto a dare soldi anche al pallone, non si poteva scontentare. Insomma, quella partita fu il liberi tutti. Da allora le multiproprietà visibili per la Uefa sono diventate di fatto legali. Figuriamoci quelle invisibili.

E allora, se davvero il Manchester United passerà ai qatarioti non servirà nemmeno sostenere che la Qib (Qatar Investment Bank) differisce per una lettera dalla Qia (Qatar Investment Authority) che possiede il Paris Saint Germain (e un quarto del Braga in Portogallo). Anche perché l’alternativa è che lo compri Jim Ratcliffe, anche lui già proprietario di un’altra squadra che fa le coppe: il Losanna. E se l’emiro di Abu Dhabi non vede l’ora che il Palermo (o una delle sue altre dieci squadre) sfidi il Manchester City in Champions League, De Laurentiis non avrà difficoltà a fare giocare in Europa sia il Napoli che il Bari.

Tanto c’è chi è già anni luce più avanti. Il fondo americano 777 Partners infatti, oltre gli australiani del Melbourne e ai brasiliani del Vasco da Gama, è proprietario di ben cinque squadre in Europa: Genoa, Siviglia, Herta Berlino, Standard Liegi e il mitico Red Star Football Club di Parigi. Alla luce del sole. Perché, come avevamo già scritto, da quando le squadre appartengono ai fondi d’investimento con sedi nei paradisi fiscali, non solo è difficile capire chi sia il vero proprietario, ma spesso va a finire che quegli stessi fondi sono gestiti da altri fondi, più grossi, che quindi si ritrovano proprietari di diverse squadre. Sulla carta rivali, sulla carta con padroni diversi.

Nel pallone, specchio dei tempi e riflesso dei modi di produzione di una società, si sta verificando la stessa tendenza al monopolio dei giganti della tecnologia che fa oramai definire la nostra epoca come “medioevo digitale”. Pochissime multinazionali che valgono più degli Stati nazione, quattro o cinque aziende in conflitto (a volte vero, altre presunto) tra loro per il predominio globale. E come ha ben analizzato il Cies, lo stesso sta accadendo nel calcio, dove anche grazie ai fondi le multiproprietà crescono in maniera esponenziale. Se andiamo avanti con questi numeri, entro il 2050 tutte le squadre che giocheranno la Champions League apparterranno a un’unica persona: probabilmente l’ologramma di Elon Musk.