Clima, armi, governance. Per Generali passi avanti ma ancora criticità
Le assemblee a porte chiuse, il business delle armi e del carbone: questi i temi delle domande rivolte da Fondazione Finanza Etica a Generali
Si è tenuta il 28 aprile l’Assemblea degli azionisti della compagnia assicurativa Generali. A porte chiuse, come consentito dalla normativa vigente, benché non se ne comprenda oggettivamente la necessità, essendo ormai ampiamente superata la fase d’emergenza legata alla pandemia. Proprio su questo aspetto, così come sul business legato alle armi e alle fonti fossili, si sono concentrate le domande presentate da Fondazione Finanza Etica.
Perché ancora assemblee a porte chiuse?
Quest’ultima, da anni ha avviato iniziative di azionariato critico, che consistono nell’acquisire piccoli pacchetti di azioni di un’azienda per avere il diritto di partecipare alle assemblee e porre domande ai dirigenti. A ciò si aggiunte un lavoro di dialogo stabilito lungo il resto dell’anno, con l’obiettivo di accompagnare le imprese verso comportamenti e modelli sostenibili.
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Le prime domande rivolte quest’anno a Generali hanno riguardato, dunque, l’opportunità di continuare a svolgere in modo telematico le assemblee degli azionisti. La compagnia ha risposto spiegando di essersi «avvalsa di una facoltà stabilita dalla normativa vigente: questa non pregiudica il contatto né li dialogo fra la società e i suoi azionisti, né tanto meno ostacola o limita la partecipazione più ampia possibile dei soci». L’azienda ha sottolineato in questo senso come l’assemblea del 2022 abbia riscontrato una partecipazione ampia e come il dialogo con gli investitori non si esaurisca nell’assemblea ma duri anche nel resto dell’anno.
La presenza di Generali nel Lussemburgo
Fondazione Finanza Etica ha quindi chiesto conto del rapporto tra ricavi e numero di dipendenti presente nel Tax Transparency Report 2022 dell’azienda. Domandando in particolare per quale motivo in Lussemburgo il dato sia pari a 15,81 (il che significa un grande volume d’affari a fronte di poco personale) mentre in Francia e Germania il valore è attorno a 2,5. Secondo Generali ciò è dipeso dal fatto che le attività in Lussemburgo sono legate, ad esempio, all’asset management specializzato in fondi d’investimento. Mentre negli altri Paesi si tratta soprattutto di polizze assicurative nei rami vita, danni e salute, rivolte ai clienti finali.
C’è tuttavia da chiedersi che “percorso” segua la richiesta di un cliente italiano che voglia fare investimenti, dal momento che un cittadino di Roma o Milano difficilmente si recherà nel Lussemburgo se vuole operare con Generali. Ma soprattutto è stato chiesto quale sia il ruolo della Generali Employee Benefits Network SA, società di diritto lussemburghese. Che secondo la compagnia italiana lavora nell’intermediazione assicurativa. Per quale motivo si è scelto di aprirla nel Granducato e non in Italia? Per ragioni di praticità logistica, afferma la compagnia: «È una società che intende operare nel mondo degli employee benefit. Tale segmento di mercato per Generali è coperto dal Generali Employee Benefits (GEB), ospitato dalla AG Luxembourg Branch, che ha sede per l’appunto in Lussemburgo». Si voleva insomma «garantire prossimità tra le due società».
Una questione di opportunità “politica”
La domanda ulteriore, che non è stato possibile porre ma che è a questo punto inevitabile, è però la seguente: è proprio necessario che GEB sia ospitata dalla AG Luxembourg Branch? Non si potrebbe decidere di porre sia la sede di Generali Employee Benefits Network SA, sia quella di GEB in Italia? Il Lussemburgo, come noto, è infatti uno Stato contro il quale si punta spesso il dito per le pratiche fiscali troppo “tenere” nei confronti delle aziende.
Si sa che spesso nel Granducato vengono aperte migliaia di società fittizie, spesso con l’obiettivo di sfruttarne le opportunità fiscali (oltreché, va detto, anche i servizi finanziari qualificati, che in alcuni casi non si trovano altrove). Come emerso chiaramente con gli scandali LuxLeaks e OpenLux. Nessuno accusa in alcun modo Generali, in questo senso. Ma una questione di opportunità “politica” non può che emergere, in ogni caso.
Otto fondi declassati da dark green a light green
Per quanto riguarda le questioni ambientali e climatiche, invece, a Generali è stato chiesto se e quanti fondi siano stati “declassati” da articolo 9 a articolo 8. Si tratta della definizione che discende dalla Sustainable Finance Disclosure Regulation. Mentre i fondi articolo 9 (dark green) puntano a perseguire specifici risultati ambientali, sociali e di governance (ESG), quelli articolo 8 (light green) promuovono le caratteristiche ESG ma possono investire anche in attività di altro tipo. Infine ci sono i fondi articolo 6 che non hanno un focus sulla sostenibilità ma si limitano a considerare i rischi. Tale definizione ha subito una modifica nei mesi scorsi, il che ha costretto numerose società a non dichiarare più i fondi come dark green.
Ebbene, Generali ha dovuto spostarne otto, per un ammontare di 3,7 miliardi di euro. I fondi di Sycomore articolo 8 erano originariamente 5, e quelli articolo 9 erano 15. Ora sono, rispettivamente, 13 e 7. Stessa sorte per un fondo Infranity. Complessivamente, la compagnia afferma di avere 151 fondi articoli 8 o 9 su un totale di 464, pari al 32,5%. Alla domanda se si intenda aumentare tale quota, la risposta è stata che non sono stati definiti target specifici. Ciò in quanto «Generali sta monitorando attentamente l’evoluzione del contesto normativo, anche alla luce della mancanza di una chiara definizione di “investimento sostenibile”».
In realtà, però, la definizione esiste: la tassonomia europea propone infatti un elenco delle attività economiche che vengono considerate, appunto, sostenibili. Certo, l’Unione Europea ha ritenuto di includervi anche il nucleare e il gas, che per diverse ragioni presentano numerosi elementi di certo poco sostenibili. Ma la definizione, appunto, c’è.
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Generali dice addio al carbone in Repubblica Ceca
Sempre in ambito ambientale, un importante passo avanti è stato effettuato in riferimento alle aziende del settore del carbone in Repubblica Ceca. Nei cui confronti Generali ha dapprima avviato un’attività di engagement. Ma, in mancanza evidentemente di risultati concreti, «negli anni 2021-2022 i rapporti assicurativi non sono stati rinnovati e i relativi investimenti sono attualmente terminati o in fase di run-off». Un successo, questo, anche dell’attività di azionariato critico, che ha a più riprese sottolineato la criticità della questione.
Più in generale, la compagnia ha confermato i propri target di disimpegno dal settore del carbone. «Non abbiamo nuovi investimenti, non attiviamo nuove coperture assicurative, non investiamo e non rinnoviamo coperture assicurative» da una serie di compagnie che superano determinate quote di fatturato, energia prodotta, capacità installata o quantitativi estratti legati alla fonte fossile in assoluto più dannosa per il clima.
Da Generali “no” ai piani climatici di 7 colossi delle fossili
Tuttavia, Generali è scesa nella classifica dell’Oil&Gas Underwriting, passando dal primo posto del 2021 al sesto del 2022. Secondo la società, ciò è legato al fatto che «le restrizioni si riferiscono sempre all’asset assicurato e non all’intero cliente». In altre parole, una compagnia i cui business fossero particolarmente nocivi per clima e ambiente, ma che proponesse un progetto invece positivo da questo punto di vista, per Generali potrebbe risultare accettabile.
La società ha quindi spiegato di aver «adottato ed implementato nuove politiche di esclusione del gas e petrolio da fracking ed estratto nella zona dell’Artico, a completamento delle politiche di esclusione dei combustibili fossili “non convenzionali“». Concludendo le domande legate all’ambiente, Fondazione Finanza Etica ha chiesto quali siano le società per le quali Generali, in qualità di azionista, ha rigettato i piani climatici. Si tratta di Apa, Repsol, BP, Shell, TotalEnergies, Equinor, Woodside Petroleum. In tutti i casi, però, i piani sono stati approvati nonostante il voto contrario della compagnia italiana.
Gli investimenti in aziende che, secondo ICAN, producono armi nucleari
Ultimo capitolo dell’attività di azionariato critico di Fondazione Finanza Etica nei confronti di Generali è quello relativo alle armi. È stato chiesto perché si continui ad investire in una serie di aziende – Leonardo, Airbus, BAE Systems, Honeywell International, Safran, Thales – che secondo la campagna internazionale ICAN sono “imprese che producono armi nucleari”. La risposta di Generali è stata che ad investire sono i sub-fund di Generali Investments Sicav, che non seguono la stessa regolamentazione degli investimenti diretti. Un peccato.