Perché la decarbonizzazione dei trasporti targata Eni non convince
La decarbonizzazione del settore dei trasporti immaginata da Eni solleva alcuni dubbi su provenienza e metodo di produzione dei biocarburanti
Lo scorso 29 maggio la compagnia petrolifera Eni e la multinazionale di ispezione, certificazione e consulenza Rina hanno annunciato un accordo per la transizione energetica del settore navale attraverso i cosiddetti biocarburanti. È invece del 6 novembre l’annuncio dell’accordo con Saipem per la realizzazione di impianti di produzione di biojet per l’aviazione e carburanti “green” per i mezzi stradali, navali e ferroviari. Insomma, il percorso verso la decarbonizzazione dei trasporti delineato da Eni si impernia sulla produzione di biocarburanti e altri vettori energetici. Una strada che ha dato adito a qualche perplessità.
Il percorso di Eni verso la decarbonizzazione dei trasporti ha molte zone d’ombra
Rina ed Eni hanno avviato un protocollo per l’utilizzo navale di biocarburante HVO (Hydrogenated Vegetable Oil) prodotto nelle raffinerie di Gela e Venezia e di vettori come idrogeno e ammoniaca derivati da materie prime non in competizione con la filiera alimentare. L’accordo prevede il monitoraggio e la certificazione dei benefici ottenuti in termini di emissioni di CO2 e l’eventuale sperimentazione di cattura di CO2 a bordo. La presenza di Rina dovrebbe fare da garanzia, ma sono diversi i dubbi circa il suo operato. Era stata proprio Rina a certificare – senza mai aver visitato gli impianti – la sicurezza degli stabilimenti di Ali Enterprise, in Pakistan, distrutti dal devastante incendio che nel 2012 causò 250 morti e più di 50 feriti.
Biocarburanti e deforestazione
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Il 6 novembre è stato invece annunciato l’accordo con Saipem per lo sviluppo del settore della bioraffinazione. Oggetto del patto, la valutazione e le realizzazione di nuovi impianti per la produzione di carburanti sostenibili: biojet per l’aviazione e HVO per i mezzi su strada, navali e ferroviari. Il Cane a sei zampe arriva all’accordo portando in dote l’expertise e la storia della trasformazione dei siti di Gela e Porto Marghera, con importanti vicende di contaminazione e impatti sanitari da un lato, deindustrializzazione e conseguenze sociali dall’altro. In questi territori da diversi anni Eni ha avviato processi di produzione di carburanti green che hanno sollevato perplessità. A partire dalla provenienza delle materie prime utilizzate.
Pillola blu o pillola verde? Non tutte le fonti green sono prodotte in maniera green
L’accordo di Eni e Rina prevede l’introduzione di vettori come idrogeno e ammoniaca per la decarbonizzazione dei trasporti nel settore navale.
Secondo Andrea Boraschi, direttore dell’ufficio italiano di Transport & Environment, entrambi rappresentano «alcune tra le soluzioni più promettenti e sostenibili per un sostanziale abbattimento delle emissioni in alcuni comparti del settore trasporti». Sono i settori cosiddetti hard to abate, in cui è più difficile l’elettrificazione diretta.
«In entrambi casi – per l’idrogeno e per l’ammoniaca – si tratta di vettori che richiedono notevoli quantità di energia per essere prodotti», spiega Boraschi. La possibilità di definirli sostenibili dipende dalla fonte da cui deriva questa energia. Blu la pillola che richiede l’utilizzo di fonti energetiche fossili, verde quella che imposta il processo sulle rinnovabili. Ad esempio, distinguiamo tra idrogeno blu, che prevede la cattura – mai completa – delle emissioni di CO2 rilasciate nel processo di produzione da metano fossile, e idrogeno verde, ottenuto tramite elettrolisi con consumi energetici da fonti rinnovabili.
In ogni caso, viste le elevate quantità di energia richieste, si tratta di processi non efficienti che «è importante siano impiegati solo dove l’elettrificazione diretta non è possibile, anche in virtù dei limitati volumi di produzione», continua Boraschi.
In che senso “biocarburanti”?
Altro oggetto degli accordi sono i biofuel. Il settore oggi punta soprattutto sui biocarburanti «avanzati», non realizzati cioè a partire da colture dedicate. La loro produzione e il loro utilizzo consente una riduzione maggiore di emissioni e, in più, non risulta in competizione con la filiera alimentare.
L’HVO (Hydrotreated Vegetable Oil) commercializzato da Eni è un prodotto di oli vegetali idrotrattati che può essere usato senza dover essere miscelato a carburanti fossili. Il Cane a sei zampe ne produce 1,1 milioni di tonnellate l’anno, ma le prospettive sono di crescita: entro il 2030 prevede di raggiungere 5 milioni di tonnellate annue. Il decreto legge Energia sarà volano di questo processo. Il governo ha previsto l’utilizzo di 300mila tonnellate di HVO dal 2023 e di un incremento di altre 100mila nei successivi tre anni, destinando 250 milioni di euro alla riconversione di una bioraffineria. Già ad ottobre Eni aveva annunciato la nascita del terzo sito a partire dalla riconversione degli impianti in dismissione di Livorno.
La produzione di biocarburanti è da tempo al centro della strategia comunicativa del Cane a sei zampe. L’azienda sostiene di utilizzare come fonti oli esausti da cucina (UCO) ma, come evidenziato da Boraschi, la Corte dei conti europea ha sollevato dubbi. «Si teme che l’import di oli esausti dai paesi asiatici sia in realtà costituito, per buona parte, da olio di palma vergine». Se così fosse, il carburante della transizione ecologica sarebbe legato a doppio filo con una delle biomasse più insostenibili ambientalmente. «Etichettare falsamente questa biomassa come UCO sui mercati europei può raddoppiarne il valore», ha spiegato l’esperto. «I consorzi nazionali – a cui si applicano regole stringenti – riescono a raccogliere annualmente appena 40mila tonnellate di oli esausti, meno del 10% di quanto si raffina in Italia. Il resto è tutto import, principalmente dalla Cina».