Assisi 2020: l’inizio di un cammino per riscoprire l’economia civile
Tutte le analisi confermano: un mondo regolato solo dalle leggi del mercato o da una visione statocentrica non tutela da ingiustizie e disuguaglianze
La sfida che, con la straordinaria iniziativa di Assisi, papa Francesco lancia a studiosi, imprenditori e policy-makers è quella di adoperarsi con coraggio per trovare i modi – che certamente esistono – per andare oltre, trasformandolo dall’interno, il modello di economia di mercato che si è venuto a consolidare durante l’attuale passaggio d’epoca.
Le tre dimensioni della vera crescita
Il fine da perseguire è quello di chiedere al mercato non solamente di essere in grado di produrre ricchezza, e di assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale, di uno sviluppo cioè che tenda a tenere in armonia le tre dimensioni dell’uomo: quella materiale, quella socio-relazionale e quella spirituale. Il mercato “incivile” mentre assicura un avanzamento sul fronte della prima dimensione, quella della crescita – e il papa esplicitamente lo riconosce – non migliora certo le cose rispetto alle altre due dimensioni.
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Si pensi all’aumento preoccupante dei costi sociali della crescita. Sull’altare dell’efficienza, eretta a nuovo mito della seconda modernità, si sono sacrificati valori non negoziabili come la democrazia (sostantiva), la giustizia distributiva, la libertà positiva, la sostenibilità ecologica e altri ancora. Si badi a non confondere le idee: il mercato “incivile” è certamente compatibile con la giustizia commutativa e con la libertà negativa (la libertà di agire), ma non con la giustizia distributiva né con la libertà positiva (la libertà di conseguire). Del pari, mentre il mercato “incivile” può “andare a braccetto” – come in realtà è accaduto – con assetti politici di tipo dittatoriale, non così il mercato civile.
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La giustizia distributiva serve anche al mercato
Insistendo su una tale linea di pensiero, papa Francesco non nega affatto che vi sono valori con cui anche il mercato “incivile” deve fare i conti. Si pensi a valori quali onestà, lealtà, fiducia, integrità. Si ammette bensì che si tratta di presupposti necessari senza i quali il mercato non potrebbe funzionare al meglio: senza fiducia reciproca, ad esempio, tra gli agenti economici mai potrà essere conseguita l’efficienza. E così via.
Ma si tratta appunto di presupposti che già devono essere presenti nella società perché il mercato possa iniziare ad operare; in ogni caso, non sarebbe compito del mercato provvedere alla loro rigenerazione: stato e società civile dovrebbero occuparsene.
Non è difficile svelare l’ingenuità di una simile linea argomentativa. I risultati che scaturiscono dal processo economico, infatti, potrebbero finire con l’erodere quello zoccolo di valori su cui il mercato stesso si regge. Ad esempio, se gli esiti di mercato non soddisfano un qualche criterio di giustizia distributiva si può forse ritenere che lo stock di fiducia e di onestà resti immutato nel corso del tempo? Come si può pensare che gli agenti economici possano fidarsi l’un l’altro e mantenere gli impegni contrattualmente presi se costoro sanno che il risultato finale del gioco economico è manifestamente iniquo? Allo stesso modo, si può ritenere che rimedi del tipo stato compassionevole o filantropia privata possano “compensare” la perdita di autostima e l’offesa alla dignità personale di coloro che vengono espulsi dal processo produttivo perché giudicati poco efficienti?
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Un meccanismo non neutrale eticamente
Da sempre la dottrina sociale della Chiesa insiste sul punto di principio che quello del mercato non è un meccanismo eticamente neutrale, i cui esiti, se giudicati inaccettabili secondo un qualche standard di giustizia distributiva, possono sempre essere corretti post-factum dallo Stato (o da altra agenzia pubblica). Si badi che è proprio questa posizione – che si richiama alla distinzione milliana tra “leggi di produzione” e “leggi della distribuzione” della ricchezza – ad aver legittimato il ben noto modello dicotomico di ordine sociale, in forza del quale lo Stato è identificato con il luogo della solidarietà e il mercato con il luogo del privatismo il cui unico fine è quello della massima efficienza. Che un tale modello non sia più sostenibile è cosa a tutti nota.
L’attuale economia di mercato postula bensì l’eguaglianza ex-ante tra coloro che intendono prendervi parte, ma genera ex-post disuguaglianze di risultati. E quando l’eguaglianza nell’essere diverge troppo dall’eguaglianza nell’avere, è la ragion stessa del mercato ad essere messa in dubbio. È in questo preciso senso che va interpretato il monito di papa Francesco: se si vuole “salvare” l’ordine di mercato occorre che questo torni ad essere un’istituzione economica tendenzialmente inclusiva. È la prosperità inclusiva la meta cui guardare. Perché è così importante insistere oggi sull’inclusività? Perché, per paradossale che ciò possa apparire, le aree dell’esclusione sono in preoccupante aumento nelle nostre società.
Non esiste un solo capitalismo
Il capitalismo è uno, ma la varietà di capitalismo sono tante. E le varietà dipendono dalle matrici culturali prevalenti nelle diverse epoche storiche. Non c’è dunque nulla di irreversibile nel capitalismo. L’economista civile non condanna certo la ricchezza in quanto tale; non parla certo a favore del pauperismo. Tutt’altro. Piuttosto vuole discutere dei modi in cui la ricchezza viene generata e dei criteri sulla cui base essa viene distribuita tra i membri del consorzio umano. E il giudizio sui modi e sui criteri non è certo di natura tecnica.
Ad esempio, l’economista civile non riesce ad accettare quella versione del darwinismo sociale – che di questi tempi ha ripreso servizio – efficacemente resa dal distico schumpeteriano della “distruzione creatrice”, perché questa versione riduce le relazioni economiche tra persone a relazioni tra cose e queste ultime a merci. Soprattutto non può accettare il principio secondo cui consensus (sia pure quello espresso dalla maggioranza dei cittadini) facit iustum.
Il dono che si insinua tra forza e legge
A partire almeno da Hobbes, una certa tradizione di pensiero ci ha improvvidamente insegnato che l’ordine sociale può essere stabilito solo attraverso un rimando tra due poli: il polo della forza (violenza, lotta, competizione posizionale) e il polo della legge (contratto sociale).
Ma si consideri il caso degli “stranieri perfetti”: se due tali stranieri si incontrano non possono siglare un accordo perché neppure hanno una lingua in comune per avviare il negoziato. Allora – ci dice quella tradizione di pensiero – devono per forza combattersi. Oppure no. Uno dei due può decidere di fare un dono e scoprire che l’ordine può conseguirne – come la storia di Francesco ci ha insegnato.
È quest’ultima la via favorita da chi si colloca nell’alveo dell’economia civile, la quale è contraria sia alla donazione senza scambio sia allo scambio senza donazione, puro mercanteggiamento tra estranei. Lo scambio senza reciprocità distrugge alla lunga il mercato. È la reciprocità, che è visibile, a costituire la controparte teorica della mano invisibile dello scambio.
La sfida dell’economia civile
Il filosofo J.L. Austin ha coniato l’espressione “performatività di un paradigma scientifico” per significare l’influenza trasformativa di quel paradigma sulla realtà.
È vero: i paradigmi, come del resto le teorie scientifiche, non suggeriscono solamente linee di condotta; essi cambiano il mindset delle persone. E oggi ci stiamo rendendo sempre più conto che il pensiero calcolante, per quanto in grado di fare presa sull’intelletto, non è sufficiente – pur restando necessario – per porre rimedio alla dilagante povertà culturale del discorso economico. L’intelletto infatti può bensì calcolare, ma è solo l’umanità della persona che è in grado di produrre pensiero pensante. Questa è la grande sfida dell’oggi, la sfida che l’economia civile, le cui radici sono nella scuola di pensiero francescana, intende raccogliere e possibilmente vincere.
La dignità del lavoro
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La cultura europea ha avuto il grande merito di aver saputo declinare, in termini sia istituzionali sia economici, il principio di fraternità facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che essa ha conservato nel corso del tempo.
Ci sono pagine della Regola di Francesco che aiutano bene a comprendere il senso proprio del principio di fraternità. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente ai già eguali di esser diversi – si badi, non differenti.
Il ruolo della fraternità
La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è vero.
Non solo, ma dove non c’è gratuità non può esserci speranza. La gratuità, infatti, non è una virtù etica, come lo è la giustizia. Essa riguarda la dimensione sovraetica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza. La logica della giustizia, invece, è quella dell’equivalenza, come già Aristotele insegnava. Capiamo allora perché la speranza non possa ancorarsi alla giustizia. In una società solo perfettamente giusta non vi sarebbe spazio per la speranza. Cosa potrebbero mai sperare i suoi cittadini? Non così in una società dove il principio di fraternità fosse riuscito a mettere radici profonde, proprio perché la speranza si nutre di sovrabbondanza.
“Dare per avere” e “dare per dovere”
Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile di quel trade-off. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”.
Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui la seconda grande trasformazione di tipo polanyiano sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione.
L’auspicio che formulo è che l’evento di Assisi 2020 costituisca l’inizio di un cammino che, per quanto laborioso e complesso, valga ad avviare un autentico progetto trasformazionale – non semplicemente riformista – dell’attuale assetto di ordine sociale. Con i mattoni si costruisce, ma è grazie alle radici che ci si sviluppa, cioè si progredisce. E per un’impresa del genere le radici sono profonde e assai vigorose.
* L’autore è un economista italiano, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore, fra i massimi esperti mondiali sull’economia sociale. Dal 27 marzo 2019 è presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali.