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Lavoro e inclusione. «Adesso l’ONU riconosca l’economia sociale»

Economia sociale sempre più decisiva. Salvatori (Euricse): «Dalle Nazioni Unite un riconoscimento formale come per gli obiettivi di sviluppo sostenibile»

Matteo Cavallito
Il palazzo delle Nazioni Unite a New York City
Matteo Cavallito
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L’economia sociale come gli Obiettivi di sviluppo sostenibile. E, più in generale, come tutti quegli impegni sanciti in sessione plenaria. Tradotto: basta proclami e generiche prese di posizione; serve un riconoscimento decisivo e a garantirlo può essere solo l’Assemblea Generale dell’ONU. Come dire il mondo al completo. È questo il vero obiettivo della Untfsse, la task force fondata a Ginevra nel 2013 «per aumentare la visibilità dell’economia sociale e solidale».

L’ente, che raccoglie decine di membri – tra cui la FAO e l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – e alcuni osservatori – tra cui l’istituto Euricse – punta insomma al bersaglio grosso: una risoluzione delle Nazioni Unite che riconosca la centralità del tema. Perché l’era della nicchia è ormai alle spalle. E l’economia sociale, assicurano gli osservatori, ha assunto ormai importanza sistemica.

Obiettivo ONU

Di questo e altro hanno discusso a Trento gli esponenti e gli osservatori della Task Force alla fine di novembre, a margine della conferenza internazionale su economia sociale e finanza “The SSE Momentum” organizzata da Euricse. Sul tavolo, spiega Gianluca Salvatori, segretario generale dello stesso istituto di ricerca europeo, il perfezionamento dell’agenda dei lavori per portare le istanze fino al massimo livello internazionale. Il meccanismo è noto: per raggiungere lo scopo lo sforzo delle agenzie non basta.

A essere fondamentale è l’impegno degli Stati membri; serve, va da sé, un’efficace campagna di pressione da parte del settore e dei suoi organismi nei confronti dei governi. E i tempi, in questo senso, potrebbero essere favorevoli.

Imprese for profit. Ma non solo

Il tema unificante delle iniziative di economia sociale è l’attenzione alla persona. Ma occhio a fare confusione: economia sociale non è sinonimo di beneficenza, né tanto meno di assistenzialismo o di finanziamento pubblico a fondo perduto. L’economia sociale, sottolinea Salvatori, è semplicemente – si fa per dire – un modo diverso di fare impresa. «Le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti: operano con l’obiettivo di generare profitti. Solo che questi non rappresentano il fine ultimo, ma sono al contrario uno strumento per l’inclusione delle persone, la difesa del lavoro, una distribuzione più equa delle risorse».

Economia sociale di sistema

«Dopo la crisi l’economia sociale ha trovato sempre maggiore spazio», sottolinea ancora Salvatori. «A differenza delle imprese sociali, le aziende tradizionali nel corso della crisi non si sono fatte scrupolo di ridurre gli occupati. Il contrario di quanto avvenuto invece nelle imprese dell’economia sociale, dove – come accaduto ad esempio in Italia – i posti di lavoro sono aumentati. Per questo servono nuove politiche e nuovi strumenti finanziari che consolidino questo modello economico non come mero strumento per riparare i guasti di un approccio non inclusivo all’economia, quanto piuttosto come autentico fattore di sviluppo a lungo termine. Proprio per questo è arrivato il momento che l’Assemblea Generale dell’ONU attribuisca formalmente all’economia sociale quella stessa legittimità istituzionale già riconosciuta al tema della sostenibilità attraverso l’elaborazione dei suoi Obiettivi di Sviluppo».

Una nuova narrazione del capitalismo?

Lo scorso mese di agosto, l’incontro annuale della Business Roundtable, l’associazione che riunisce gli amministratori delegati delle maggiori società statunitensi ha provato a ispirare una svolta. In una nuova dichiarazione di principi, il salotto buono delle corporation USA si è impegnato sulla carta «a generare valore per tutti i portatori di interesse». In pratica una drastica revisione del caro vecchio mantra sul primato degli azionisti e del profitto a tutti i costi. Qualcuno ha parlato di svolta etica del capitalismo, tradendo con ogni probabilità un eccesso di enfasi e un esagerato ottimismo. Ma l’iniziativa – suggeriamo noi con tutte le cautele del caso – potrebbe essere anch’essa, volente o nolente, un segno dei tempi.

L’economia sociale guadagna consenso

La sensazione, sottolinea ancora Salvatori, è che oggi «dopo il riconoscimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile si accetti sempre di più l’idea del pluralismo delle forme di impresa». Nonostante tre decenni di narrazione «martellante», in altre parole, «l’idea del modello unico rappresentato dall’impresa di capitali orientata esclusivamente agli interessi degli azionisti non trova più consenso unanime».

Nuove soluzioni dalle imprese sociali

È anche per questo, probabilmente, che un’istituzione di alto livello come l’ILO ha invocato esplicitamente il ruolo delle imprese sociali nella risoluzione di problemi differenti in contesti completamente diversi. Il recente documento sul “Futuro del Lavoro”, in particolare, ha individuato nell’economia sociale uno strumento capace di favorire l’integrazione dell’economia informale, un problema tuttora pressante nei Paesi emergenti e in via di sviluppo. Ma anche un mezzo per contrastare la crescita dei working poors – le persone che vivono in condizione di povertà pur avendo un impiego – ovvero di un pericoloso trend post crisi che caratterizza l’Europa da almeno un decennio.

La buona notizia è che il mondo non sta a guardare. «Tutti i paesi UE si sono attivati per il riconoscimento delle imprese sociali all’interno dei loro ordinamenti» conclude il Segretario Generale di Euricse.

«L’Italia e la Spagna sono molto attive in questo senso; il Regno Unito è stato un precursore; la Francia si sta impegnando molto per favorire l’attesa risoluzione ONU. Paesi più piccoli come Portogallo e Belgio stanno facendo molto per misurare il peso dell’economia sociale nell’ambito delle loro rilevazioni statistiche».

Non mancano, infine, esempi virtuosi al di fuori del vecchio Continente, come evidenziano – precisa Salvatori – i casi del Canada francofono e della Corea del Sud. La tendenza è chiara, insomma. Alle Nazioni Unite il compito di garantire l’ultima spinta decisiva.