Eni, perché conservare le foreste non può bastare per il clima
Compensare le emissioni curando le foreste per poter continuare ad inquinare. I legittimi dubbi sul piano di Eni
Da almeno tre anni a questa parte le principali compagnie petrolifere mondiali, compresa l’italiana Eni, si sono esercitate nella redazione di piani di decarbonizzazione. L’obiettivo dichiarato è quello di essere in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Diventando “neutrali” dal punto di vista climatico entro il 2050. La sforzo di transizione verso un modello industriale net zero si fonda, generalmente, su due colonne portanti: l’abbattimento delle emissioni e la loro compensazione.
La strategia di Eni per ridurre le emissioni di CO2
L’abbattimento si verificherebbe – secondo le grandi compagnie – investendo in misura sempre maggiore in energie rinnovabili. Estraendo sempre meno petrolio e sempre più gas. Raffinando biocarburanti e vendendo elettricità verde alle famiglie. Mentre la compensazione avverrebbe grazie ai cosiddetti carbon sink: cattura e stoccaggio di anidride carbonica (CCS). E progetti di conservazione forestale o riforestazione.
Per diventare “neutrale” entro il 2050, la compagnia petrolifera Eni punterà per l’82% sulla riduzione delle emissioni e per il 18% sulla loro compensazione. «Il piano di lungo termine prevede, al 2050, la cattura e sequestro di emissioni attraverso progetti CCS per un totale di 50 milioni di tonnellate di CO2». Così risponde Eni alle domande inviate da Greenpeace, ReCommon e Fondazione Finanza Etica prima dell’assemblea degli azionisti 2021. «E compensazioni attraverso progetti di conservazione forestale per circa 40 milioni di tonnellate di CO2. Pari rispettivamente a circa il 10% e l’8% delle emissioni complessive (al 2018)».
Il mercato dei carbon credit per compensare le emissioni
Ad oggi le informazioni a disposizione sui progetti di conservazione forestale sono ancora limitate. «Oltre al progetto LCFP in Zambia, Eni ha acquistato a fine 2020 crediti dal progetto Kulera in Malawi», si spiega nelle risposte fornite prima dell’assemblea. «Analogamente a LCFP (Luangwa Community Forests Project), si tratta di un progetto REDD+. Validato e certificato (…) per il suo eccezionale impatto sulle comunità, sul clima e sulla biodiversità».
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In una ricerca pubblicata da ReCommon e Greenpeace Italia nel maggio del 2021, si cerca di far luce sulla nuova passione di Eni (e di molte altre compagnie petrolifere) per la conservazione forestale. «Per raggiungere il proprio obiettivo di decarbonizzazione, Eni intende fare un uso massiccio di uno schema chiamato REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation)», scrivono le due Ong nel loro rapporto.
In questo modo si possono compensare le emissioni causate, acquistando carbon credit (sorta di “diritti ad inquinare”) da progetti di conservazione delle foreste. «I crediti sono generati da progetti di compensazione della CO2. Che dovrebbero impedire le emissioni di anidride carbonica prevenendo la deforestazione», continua il rapporto.
«Così Eni cerca di non rinunciare al business fossile»
«Acquistando questi titoli sul mercato, le società possono affermare di aver compensato un certo volume delle loro emissioni, in quanto le hanno impedite altrove». «In sostanza, il ricorso alla compensazione attraverso le foreste consente a Eni di azzerare le emissioni nette entro il 2050 senza dover rinunciare al proprio business fossile», spiega a Valori.it Alessandro Runci di ReCommon. «Gli investimenti di Eni in progetti di conservazione delle foreste, alla fine, sono solo una operazione di greenwashing».
Nel rapporto intitolato “Cosa si nasconde dietro l’interesse di ENI per le foreste”, i dubbi espressi sui progetti di forestry di Eni sono numerosi. Per prima cosa, gli schemi di compensazione si baserebbero su assunti impossibili da verificare. «Si presumono riduzioni di emissioni sulla scorta di ciò che sarebbe accaduto se tali progetti non fossero stati realizzati – continua Runci -. Si tratta di stime aleatorie, che si rivelano di importanza fondamentale per tenere in vita ancora per decenni il modello di sfruttamento dei combustibili fossili».
La carbon neutrality sarebbe poi molto diversa dalla riduzione a zero delle emissioni. «Net zero non equivale a zero. Vuol dire solamente che, per ogni emissione che si continuerà a generare, risulterà a bilancio che si è evitata un’emissione altrove. O che una certa quantità di anidride carbonica è stata catturata dall’atmosfera».
I rischi per biodiversità, clima e diritti
I progetti REDD+ rischierebbero poi di tradursi in un massiccio accaparramento di terre. A scapito di popolazioni indigene in Paesi poveri. «In diversi casi, sono già state imposte restrizioni di vasta portata sull’utilizzo delle foreste nei confronti di popolazioni indigene e comunità tradizionali», si legge nel rapporto. Il tutto «per permettere ad alcuni grandi inquinatori di dichiarare di aver “compensato” le proprie emissioni».
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«Spesso accade che comunità locali, tradizionali e popoli indigeni interessati dai REDD+ non vedano riconosciuto il proprio diritto alla terra», spiega Alessandro Runci. «Anzi, in alcuni casi vengono rappresentati come una minaccia per la biodiversità e per le foreste. Ciò a causa di pratiche culturali o di sussistenza». Oltre al danno la beffa, dal momento che spesso sono invece proprio queste comunità a difendere le foreste dagli attacchi della grande industria estrattiva e agroalimentare. Anche a costo della vita.
Per le due Ong autrici del rapporto non ha senso usare i progetti di conservazione forestale in questo modo. Ovvero come una stampella per continuare a pianificare la vendita di energia ottenuta da petrolio e gas fossile anche oltre il 2050. «L’unica soluzione per contribuire davvero a contrastare la crisi climatica in corso è abbandonare i combustibili fossili. Investendo in rinnovabili ed efficienza energetica», ha dichiarato Martina Borghi di Greenpeace Italia. Una percorso molto chiaro. Che Eni ed altre compagnie petrolifere non sembrano ancora preparate a percorrere.