Agricoltura sociale: buoni frutti per gli esclusi e vittime di violenza
Oltre 1100 realtà fanno parte dell'agricoltura sociale. Tutelate per legge da pochi anni, risorsa per donne, disabili, migranti. Che in campagna ritrovano il proprio futuro
C’è Funky Tomato che si ribella al caporalato in Basilicata. E realizza ottime salse, sughi e derivati del pomodoro assumendo direttamente migranti da Ghana, Gambia e Burkina Faso con un contratto regolare. Impiegati come braccianti sui terreni di agricoltori che aderiscono a un network con un disciplinare etico. O la cooperativa sociale Il Melograno che, a partire dalla formazione compiuta negli oliveti e nei vigneti, favorisce la nascita di cooperative locali di comunità, agricole e artigianali, ripopolando di giovani e famiglie, italiani e stranieri, i paesi abbandonati e invecchiati della Campania.
C’è l’Erbaio di Lamezia Terme che dal lavoro nell’orto ottiene il recupero di persone in difficoltà, vendendo la produzione all’interno di una rete di gruppi d’acquisto solidale. E ci sono le 9 cooperative di Libera Terra, che coltivano sia l’eccellenza dei frutti, del vino e dell’olio sui beni confiscati alle mafie, sia la cultura della legalità nella società, cominciando da Sicilia, Campania, Puglia e Calabria.
Agricoltura sociale: legge giovane per bisogni attualissimi
Sono solo alcuni esempi, concreti e di successo, necessari a comprendere ciò che in Italia è disciplinato dalla legge 141/2015 come agricoltura sociale (ma spesso abbreviata con la sigla AS). Considerata avente finalità d’interesse generale anche dal nuovo Codice del Terzo settore (d.lgs. 117/2017). E sono alcune delle oltre 1100 realtà di questo tipo individuate, di cui circa un terzo è stata censita nel più recente e completo rapporto dedicato al tema, quello della Rete rurale nazionale 2018.
Un fenomeno formalmente giovane, quindi, che nel nostro Paese ha dato corpo al modello definito dalla locuzione inglese social farming, utilizzata per condensare un insieme di condotte finalizzate all’inclusione e alla co-terapia. O meglio, per dirla con le parole del Forum nazionale agricoltura sociale, «pratiche svolte su un territorio da imprese agricole, cooperative sociali e altre organizzazioni che coniugano l’utilizzo delle risorse agricole con le attività sociali, al fine di favorire la generazione di benefici inclusivi, la coesione sociale, la riabilitazione e la cura».
Dalla fattoria all’ente pubblico, e nessun gigante dell’agribusiness
E se chi eroga tali benefici può essere una fattoria didattica, un ente sociosanitario o un agriturismo con servizi ad hoc sul territorio, a tradurre l’inclusione in atto può essere un luogo di protezione per donne maltrattate o minori, il maneggio che esercita la pet-therapy, la riabilitazione psichiatrica coadiuvata dalla cura del verde o un percorso d’inserimento lavorativo che conduce a riconquistare autonomia e dignità personale.
Ognuno di questi ambiti e di queste vie è forma dell’agricoltura sociale. Ed espressione dei suoi obiettivi. Spesso perseguiti in partnership tra diverse organizzazioni. E ancor più di frequente da enti che condividono una visione del mondo orientata verso precisi principi etici e di sostenibilità ambientale. Molti, ad esempio, li realizzano con un’offerta di turismo responsabile e agricoltura biologica.
Se invece consideriamo la dimensione quantitativa, le aziende censite sono perlopiù di piccole-medie dimensioni. Tolte le microimprese da 4mila euro (14%), la classe di fatturato più rappresentata è quella tra 8 e 25mila euro (13,4%), a cui seguono quelle 50-100mila e 100-250mila euro (12,5% per entrambe). Mentre sopra il milione di euro rimane un 10%. La media si ferma poco sotto i 230mila euro, con le imprese sopra i 250mila euro di fatturato che, nella maggior parte, sono cooperative, soprattutto di tipo B.
Questo è lo scenario cui l’indagine di Rrn ha provato a scattare una fotografia, elaborata attraverso centinaia di sondaggi inviati alle realtà dell’AS italiane. Una moltitudine di cooperative sociali (46%), imprese individuali (19%), società o soggetti del Terzo Settore (12%), enti pubblici (6%) e altre forme cooperative (5%) che partecipano nella costruzione di un comparto. Il quale si rivolge a un ben più ampio spettro di beneficiari.
Lavorare la terra per superare il disagio, ecco l’Erbaio di Lamezia TermeUn appiglio per gli ultimi
Si indirizza innanzitutto a persone con disabilità (le più rappresentate, con un 54%), ai disoccupati con disagio socioeconomico (31%). E poi donne vittime di violenza, tossicodipendenti da alcol e droga, anziani over 65, ex detenuti… ma anche a studenti impegnati nell’alternanza scuola lavoro e minori (27%). Individui differenti per età, storia personale e problematiche prioritarie, ma tutti bisognosi, a modo proprio, dei “benefici inclusivi” citati poco sopra.
E anche se dall’indagine è difficile ricavare un dato significativo sulla distribuzione territoriale degli operatori di agricoltura sociale (la risposta ai sondaggi inviati non è stata piena e uniforme geograficamente), sicuramente si coglie una presenza forte di soggetti nelle regioni del centro, particolarmente nel Lazio, e in Sicilia.
Ma la speranza è che l’interesse per queste forme di attività, magari al fine di creare reti o distretti dell’agricoltura sociale – come per il biologico – possa finalmente consolidarsi. Ora che, a quattro anni dalla pubblicazione della legge 141, sono arrivati anche i decreti attuativi, a giugno 2019. Nei quali si entra nel merito dei requisiti che le società, gli enti e le attività di AS devono presentare. E si chiarisce – precisa Cia Toscana – che «le aziende agricole in forma singola o associata e le cooperative sociali, il cui reddito da attività agricola debba essere superiore al 30% del totale, possano essere riconosciute come soggetti che erogano servizi di agricoltura sociale».