Artisti per l’ecologia radicale: intervista a Emanuele Braga

L'ecoattivismo per una contro-narrazione sulla catastrofe climatica. Nel mirino i rapporti dell'industria culturale con fossili e armi

Andrea Di Turi
Attivisti contro la catastrofe climatica © Tania Malréchauffé / Unsplash
Andrea Di Turi
Leggi più tardi

«Invitiamo artisti e intellettuali a frequentare percorsi e ritualità degli ecoattivisti. Per capire il ruolo che la produzione artistico-culturale può avere al servizio delle lotte per il clima». Così esordisce Emanuele Braga. Co-organizzatore del World Congress for Climate Justice di ottobre 2023 a Milano. È anche fra i co-fondatori dell’Institute for Radical Imagination, un gruppo di curatori, attivisti, ricercatori e produttori culturali che condividono l’interesse nella co-produzione di ricerca, conoscenza, interventi di ricerca artistica e politica che hanno lo scopo di implementare forme di vita post-capitaliste.

Che seguito ha avuto il WCCJ in questi mesi?

Il WCCJ ha avuto il grande pregio di radunare le diverse anime del climattivismo globale. È stato un importante momento di discussione e convergenza. E anche inaugurale, perché ha dato il via a un’internazionale dell’ecoattivismo. Da lì si è lavorato per espandere il Comitato operativo internazionale. Soprattutto per strutturarlo con una presenza forte e un maggiore protagonismo dei collettivi del Sud del mondo, che è uno dei punti centrali su cui ruotano gli incontri che abbiamo continuato ad avere. Anche perché occorre affrontare la cessione del privilegio della soggettività occidentale, che è una delle cause del collasso climatico.

Un altro punto di discussione è la forma organizzativa da dare al Comitato. E poi le prossime tappe, a cominciare dalla progettazione della seconda edizione del WCCJ. Nel medio termine c’è una proposta di un’iniziativa a Londra, capitale molto attiva su varie traiettorie del climattivismo europeo e in questi ultimi mesi anche in supporto alla Palestina. Ma già si guarda alla Cop30 di fine 2025 in Brasile, a Belèm, che potrebbe essere sede di un’edizione corposa del WCCJ. Nulla però è ancora deciso.

Com’è nata l’idea dell’Institute for Radical Imagination?

È una piattaforma nata nel 2017 per fare collettivo e organizzazione cercando una convergenza a livello internazionale. Riunisce attivisti, artisti, ricercatori, lavoratori culturali, principalmente nel Sud Europa e area del Mediterraneo, emersi sull’onda lunga delle lotte in uscita dalla crisi finanziaria del 2007-08: dagli Indignados alle primavere arabe, alla crisi greca. Abbiamo iniziato a operare con la pandemia Covid-19 e in questi ultimi anni di crisi bellica generalizzata. Un primo ciclo di attività ha riguardato temi economici: reddito, distribuzione della ricchezza, casa, circuiti di cura e mutualismo autogestiti. Con la campagna Art for UBI abbiamo lavorato ad esempio sul tema del Reddito di Base Universale.

Il secondo ciclo di attività è sui temi dell’ecologia. In coincidenza con l’ultima Biennale Arte di Venezia abbiamo organizzato un grosso cartellone di eventi in collaborazione con L’Internationale, una rete di grandi musei e istituzioni artistiche europei. Abbiamo discusso di come le istituzioni artistico-culturali possono aprirsi all’impegno politico su questi temi. E abbiamo fatto il punto con artisti e attivisti palestinesi e con la rete Anga (Art Not Genocide Alliance), il cui appello contro la presenza israeliana alla Biennale in pochissimo tempo ha raccolto decine di migliaia di firme, su come agire sulla narrazione del genocidio in corso a Gaza. Infine, abbiamo partecipato a un’azione diretta con il Comitato No Grandi Navi contro la presenza della grandi navi in laguna.

Perché serve una contro-narrazione sulla crisi climatica e che ruolo può svolgere l’arte in tal senso?

I nostri interlocutori “nemici” stanno operando un’operazione narrativa, quella raccontata dalle Cop: che il collasso climatico si risolve col mercato, con i capitali “green”, con narrazioni tecno-soluzioniste in cui i problemi saranno risolti senza che le persone se ne debbano preoccupare troppo. Serve allora una contro-narrazione che sovverta quella mainstream e riesca a “bucare”, a convincere il senso comune su un altro tipo di visione.

Inoltre, occorre operare conflitto intorno ai legami che istituzioni artistico-culturali e universitarie mantengono con l’industria del petrolio e delle armi, il che come vediamo è oggetto anche di mobilitazioni studentesche. Significa contrastare la “tossicità” di queste relazioni, poiché molte istituzioni dipendono economicamente dai finanziamenti provenienti da quelle industrie. Al riguardo abbiamo lanciato il Manifesto sull’Ecologia Radicale, presentato sempre a Venezia in un libro che raccoglie interventi di intellettuali intorno alla sua genesi, dove un punto è l’abolizione della “filantropia tossica” che sta dietro a tanta produzione artistico-culturale.

Quali forme di arte riescono a “bucare” di più?

Tante discipline possono essere messe al servizio di questa missione: film, documentazione video, teatro, performance, campagne di subvertising. Mi vengono in mente lo spettacolo teatrale realizzato dagli operai della Gkn di Firenze, la vasta documentazione prodotta da Oliver Ressler sui movimenti ecoattivisti, il network Barbie Liberation Organization e la sua Barbie ecoattivista. Spesso sono operazioni ibride, raffinate dal punto di vista artistico e combinate con la guerrilla mediatica.

L’arte può arrivare là dove forme più tradizionali di ecoattivismo faticano?

Entrare in modo dirompente nel senso comune senza essere elitari è un obiettivo importante e allo stesso tempo complicato. Anche perché è un terreno su cui la controparte esercita controllo e censura. Una tendenza che gioca a nostro favore, ma aggiungerei “purtroppo”, è che anno dopo anno l’opinione pubblica è costretta sempre più a fare i conti con ondate di calore, alluvioni, inquinamento atmosferico: voglio dire che il collasso climatico è sempre più evidente, purtroppo. Per cui per la contro-narrazione abitare in un tale contesto sarà un vantaggio.