Avocado, il frutto star degli anni Venti. Ma a quale prezzo?
L’avocado è un simbolo di benessere alimentare, ma la sua produzione spesso comporta un impatto devastante su ambiente e comunità locali
C’è stato un tempo in cui la rucola era ovunque. Negli anni Novanta era l’ingrediente immancabile in ogni piatto che volesse sembrare moderno. Oggi, lo stesso destino tocca all’avocado: toast, poké, insalate, frullati, perfino dessert. È il frutto simbolo di uno stile di vita salutista, verde e – va detto – piuttosto fotogenico. Ma dietro l’icona wellness degli anni Venti si nasconde un lato oscuro.
L’avocado è diventato un simbolo del benessere sulle tavole occidentali, ma il suo successo globale ha un prezzo elevato per i Paesi che lo producono. Coltivarlo su scala industriale comporta costi ambientali e sociali significativi: deforestazione, consumo massiccio di acqua, uso intensivo di pesticidi e impatti sulle comunità locali. Dall’America Latina all’Africa, passando per l’Europa meridionale, cambiano i luoghi ma non gli effetti: le conseguenze sono spesso le stesse. Ecco una rapida carrellata dei maggiori impatti dell’avocado, tenendo in considerazione che in un contesto segnato dalle crisi climatica e sociale, continuare a consumare avocado come se fosse una scelta neutrale significa voltare le spalle alle responsabilità che questo “superfood” si porta dietro.
Siccità e deforestazione: gli effetti ambientali dell’avocado
Uno dei casi più conosciuti è quello del Cile, dove la monocoltura di avocado ha trasformato intere vallate in zone aride. A Petorca, regione contadina a nord di Santiago, le piantagioni destinate all’export europeo hanno finito per prosciugare i corsi d’acqua locali. Il fiume La Ligua è ridotto a un letto secco da anni, mentre le comunità sono costrette a dipendere da autobotti per accedere all’acqua potabile. Un singolo avocado può richiedere fino a 320 litri d’acqua, un dato insostenibile in una regione dove le precipitazioni sono già scarse per effetto della crisi climatica.
Come raccontato nel podcast Terra Bruciata della giornalista Elena Basso, ospite della nostra serie Cartoline da Atlantide, la situazione è il frutto di un modello agricolo orientato esclusivamente all’export, sostenuto da una gestione privata delle risorse idriche che ha consentito alle aziende di accaparrarsi l’acqua a scapito della popolazione locale.
Situazione simile in Perù, soprattutto nella regione desertica di Ica, dove la coltivazione intensiva di avocado (dopo quella degli asparagi) ha aggravato la crisi idrica. Le aziende agricole, per mantenere la produzione in una delle aree più aride del mondo, hanno scavato pozzi sempre più profondi, fino a 150–200 metri, sfruttando risorse sotterranee non rinnovabili. Questo ha innescato un processo irreversibile di abbassamento delle falde, mettendo a rischio non solo l’ambiente, ma anche la sicurezza alimentare locale.
Ma l’esempio più emblematico rimane il Messico, primo esportatore di avocado al mondo con il 40% della produzione globale. Nell’ultimo decennio, sono stati disboscati 100mila ettari per fare spazio a nuove piantagioni. Nello Stato di Michoacán, che da solo produce circa l’80% degli avocado destinati al mercato statunitense, la superficie coltivata è triplicata negli ultimi vent’anni, trasformando radicalmente il paesaggio. In una regione colpita ogni anno dalla siccità, l’espansione dell’avocado ha effetti devastanti anche sulle risorse idriche: pozzi prosciugati, fiumi deviati, suolo eroso e maggiore rischio di frane. Il tutto per alimentare una produzione destinata in larga parte al mercato estero.
Le monocolture hanno sostituito le foreste di pini e querce, contribuendo alla perdita di biodiversità. Secondo un’inchiesta di Yale Environment 360, produttori locali — spesso appoggiati da interessi economici e politici — convertono illegalmente aree forestali in piantagioni, compromettendo habitat come quello della farfalla monarca, specie simbolo della regione.
Anche in Kenya, la crescente domanda di avocado ha spinto un’agricoltura di esportazione spesso legata a deforestazione, land grabbing e scarsità d’acqua. Piccoli agricoltori denunciano contratti iniqui, espropri e accesso limitato alle fonti idriche. Le piantagioni, spesso recintate con filo spinato, ostacolano persino il passaggio degli elefanti, minacciando i loro percorsi migratori e habitat.
Pesticidi vietati e crimine organizzato: l’altro volto del boom dell’avocado
Secondo un rapporto dell’organizzazione Grain, nella sola regione messicana del Michoacán si usano 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti. Molti di questi prodotti sono vietati nell’Unione europea, ma vengono comunque utilizzati nei Paesi da cui importiamo. In questo paradosso normativo, ciò che proibiamo nei nostri campi finisce comunque sulle nostre tavole, aggirando i divieti senza risolvere il problema.
Sempre in Messico, uno degli aspetti più inquietanti è il legame tra l’avocado e la criminalità organizzata. I cartelli della droga, attratti dagli alti margini di profitto, hanno preso il controllo del settore in molte aree. Impongono “tasse di protezione” ai produttori (derecho de piso), sequestrano terreni e alimentano un clima di violenza e intimidazione, colpendo in particolare le comunità rurali.
Avocado in Europa: coltivazioni in crescita e nuovi rischi ambientali
Spostiamoci ora nel Nord del mondo, da cui proviene la maggior parte della domanda globale di avocado. Qui non ci si limita a consumarlo: sebbene in misura minore, lo si produce anche. In Spagna (soprattutto in Andalusia) e nel sud del Portogallo, le coltivazioni sono in forte espansione.
Nel sud del Portogallo, l’azienda Frutineves ha convertito 120 ettari ad avocado senza una preventiva valutazione d’impatto ambientale. Questo ha suscitato la reazione di cittadini e attivisti: l’associazione Regenerarte ha avviato un’azione legale per difendere le risorse idriche locali. Inizialmente approvata, l’espansione è stata poi bloccata dalle autorità per i rischi di desertificazione.
Coltivare avocado in modo etico: dalle filiere corte all’agroecologia
Anche in Italia cresce la coltivazione di frutta tropicale: oltre mille ettari tra Sicilia, Calabria, Puglia e Sardegna sono oggi dedicati all’avocado. In molti casi, i frutti vengono distribuiti tramite GAS (gruppi di acquisto solidale), promuovendo la filiera corta e riducendo l’impronta ecologica del consumo. A patto, però, di non replicare i modelli intensivi: servono pratiche sostenibili, biologiche, attente al suolo, alla biodiversità e all’acqua.
Un esempio da seguire arriva ancora dal Messico. A Zitácuaro, comunità indigene come i Mazahua e gli Otomí portano avanti progetti agroecologici collettivi: alternano coltivazioni, riforestano con pini autoctoni e tutelano la farfalla monarca. Alcuni gruppi accedono anche a fondi pubblici per la conservazione, dimostrando che una produzione sostenibile è possibile e può generare valore senza distruggere l’ambiente.
Ripensare la sostenibilità dell’avocado: oltre l’apparenza green
Il caso dell’avocado dimostra che dietro ogni cibo quotidiano ci sono scelte politiche, ambientali e culturali. La sostenibilità non può essere un’etichetta apposta a posteriori. Serve ripensare i modelli produttivi, sostenere chi resiste alla logica dell’estrazione, e ridare centralità alle pratiche contadine che mettono al centro la vita, non il profitto.
Forse l’avocado non sarà “il nuovo petrolio”, come qualcuno ha scritto. Ma rischia comunque di provocare danni simili se trattato come una risorsa da sfruttare senza limiti. Mangiarlo non è un peccato. Ma sapere da dove viene – e chi lo produce – è oggi un atto politico.
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