Banche, miniere e diritti umani: tanti impegni, pochi fatti
L’estrazione di minerali per la transizione ecologica comporta gravi rischi per i diritti umani. Le banche li affrontano solo a parole
Nel film Avatar di James Cameron si racconta la storia di un albero nella foresta del rigoglioso pianeta di Pandora. Questo albero è la casa di un popolo indigeno, i Na’vi, ma contiene anche un cristallo ferroso, l’unobtanium, che sarebbe utilissimo per risolvere gli enormi problemi energetici che affliggono l’arido pianeta Terra. Nel film gli umani – per lo più maschi bianchi, divisi fra emissari di compagnie desiderose di arricchirsi, soldati arroganti e scienziati conniventi – hanno il tipico ruolo che ricoprono spesso anche fuori dalla fiction: vogliono appropriarsi di risorse, in questo caso l’unobtanium, anche se questo implica distruggere l’albero della vita di un altro popolo.
È successo finora con il petrolio e con il carbone, sta succedendo di nuovo con la transizione energetica. Litio in Cile o Argentina, silicio in Costa d’Avorio e Niger, cobalto in Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Risorse preziosissime, la cui estrazione ha conseguenze spesso nefaste sul territorio e sui suoi abitanti.
Il centro di ricerca internazionale sui diritti umani Business & Human Rights Resource Centre ha pubblicato di recente un rapporto dedicato in particolare al Sudafrica dal titolo Financing mining for transition minerals in South Africa. Are banks doing enough on human rights?
I minerali della transizione ecologica al centro della ripresa economica del Sudafrica
Il Sudafrica infatti si prepara a un piano da 80 miliardi di dollari per far ripartire l’economia, partendo proprio dallo sfruttamento delle materie prime. Nel suo territorio si trovano importanti giacimenti di litio, zinco, platino e cromo, essenziali per la transizione. E soprattutto di manganese, necessario per la produzione di acciaio, batterie e per le infrastrutture dell’eolico e del solare. Ma l’impatto dell’estrazione di questi minerali sulle popolazioni locali è fortissimo. Si parla di accesso all’acqua potabile, inquinamento delle falde, malattie respiratorie, sfruttamento. Le comunità indigene non vengono debitamente informate e quasi mai consultate come previsto dalla legge, nonostante la Corte Costituzionale sudafricana le abbia riconosciute nel 2018 come legittime occupanti delle loro terre.
Chi avrebbe il potere di cambiare rotta, secondo Business & Human Rights Resource Centre, sarebbero le banche che finanziano queste attività. «Le banche possono usare la loro influenza per implementare le condizioni per il rispetto dei diritti umani nella fornitura di servizi di corporate e project finance. Hanno l’opportunità di garantire la costruzione di un nuovo settore energetico che rispetti i diritti umani, assicurando così una transizione non solo rapida ma anche equa. E che non riproduca gli abusi del settore dei combustibili fossili e le scarse pratiche in materia di diritti umani tipiche del settore minerario tradizionale in Sudafrica e in tutto il mondo».
E le banche italiane?
Le banche italiane e gli impegni (insufficienti) sui diritti umani
Secondo BankTrack l’impegno delle due più grandi banche italiane sui diritti umani è insufficiente. E rispetto al 2019 i progressi sono pochi
Le banche potrebbero fare molto di più per i diritti umani
Il report prende in considerazione 15 banche (di cui 5 locali e 10 internazionali), principali creditrici delle maggiori società minerarie del paese. L’obiettivo è quello di stabilire se, prima di finanziarle, stiano conducendo un’adeguata due diligence sui diritti umani e sull’ambiente.
12 dichiarano un chiaro impegno politico verso il rispetto dei diritti umani, associato all’aspettativa che anche i loro clienti lo condividano. Concretamente, quasi nessuna segue politiche o procedure specifiche per affrontare i rischi di un settore così delicato. La maggior parte non richiede nemmeno ai propri clienti di aver ottenuto il consenso delle comunità locali. Si usano parole come “incoraggiare”, “essere impegnati”: non ci sono richieste tassative.
Molte banche escludono clienti precedentemente coinvolti in settori come l’estrazione del carbone o la trivellazione nella regione artica, ma non per precedenti negativi in materia di diritti umani o abusi. Ancora meno presenti e concreti sono gli impegni di risarcimento nel caso in cui questi diritti non vengono rispettati. Eppure la transizione energetica ha costi umani e ambientali enormi che si concentrano prevalentemente in territori di quei popoli che meno ne beneficeranno e meno hanno contribuito alla crisi climatica. Un po’ come i Na’vi di Avatar.
Le banche, proprio perché sono coinvolte fin dalla prime fasi di finanziamento dei progetti, potrebbero avere una fortissima influenza sul comportamento delle imprese. Potrebbero richiedere ai propri clienti due diligence specifiche sui diritti umani e sull’ambiente; rigorose politiche di coinvolgimento di abitanti e lavoratori; l’obbligo per le società minerarie di ottenere il consenso informato da parte delle comunità indigene prima di insediarsi in un certo territorio. Con la possibilità, e questo forse è il punto più più difficile da accettare, che questo consenso non venga concesso. E che quel giacimento non possa essere sfruttato.