Banche con la plastica in cassaforte. Due sono italiane
Plastica monouso: bastano 20 compagnie per produrne il 50% del quantitativo globale. Ma quali sono le banche e i fondi che finanziano questo materiale inquinante?
La plastica in generale, e la plastica monouso in particolare, sono tra i nemici numero uno dell’ambiente. E dietro la loro diffusione c’è, come spesso accade, un numero ristretto di industrie. Mentre i danni che genera colpiscono tutti. La produzione di questo materiale alimenta la filiera del petrolio che alimenta il riscaldamento globale del Pianeta. Il suo smaltimento è complesso e costoso, poiché non sempre è possibile avviarla al riciclo. E, infine i rifiuti plastici e le microplastiche dispersi nell’ambiente e nei mari (marine littering) inquinano e avvelenano habitat e animali.
Una normativa europea per ridurre la plastica monouso
Benché l’Italia si distingua proprio nella classifica dei Paesi che continuano ad accumulare questi rifiuti, qualche buona notizia possiamo darla. L’Europa, ad esempio, inizia ad applicare una legge che dichiara guerra vera alla plastica monouso. E l’informazione fa un passo avanti grazie a un rapporto da poco uscito e pubblicato da Minderoo Foundation. Nel testo, i ricercatori denunciano l’inazione di una filiera industriale che non vuole abbandonare il profitto consolidato, e fanno i nomi dei grandi produttori internazionali del settore e dei loro finanziatori. Tra cui le due principali banche italiane: Unicredit e Intesa Sanpaolo.
Il mercato della plastica monouso, infatti, è ancora in ottima salute, tanto che nei prossimi cinque anni si prevede un aumento del 30% della capacità produttiva globale dei polimeri da materia prima vergine per plastiche monouso. E persino un +400% per alcune singole società. Una crescita che si tradurrà in tremila miliardi di oggetti di plastica in più gettati nella spazzatura. Considerando poi che – sottolinea Minderoo – non più del 2% della plastica usa e getta è prodotta con plastica riciclata o materie prime seconde. Ciò significa che il restante 98% deriva dalla trasformazione di derivati del petrolio, che la pandemia ha reso anche più convenienti.
I colossi petrolchimici dietro il business della plastica
Minderoo evidenzia che basta un gruppo relativamente piccolo di multinazionali petrolchimiche dedite alla realizzazione dei famosi “polimeri” – l’elemento costitutivo della plastica – per dare corpo alla gran parte di questo mercato.
Un centinaio di imprese sarebbe infatti responsabile del 90% della produzione mondiale di plastica monouso. Ma venti sole aziende sarebbero la fonte di oltre metà (51%) di tutta la plastica monouso gettata via a livello globale. In particolare, la nota compagnia petrolifera ExxonMobil è in cima alla lista, avendo contribuito con 5,9 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica globali generati nel 2019. Mentre a seguirla da vicino ci sono altri giganti del settore: la statunitense Dow e la cinese Sinopec.
Le banche e gli investitori con la plastica nel cuore
D’altra parte – s’è detto – il comparto è florido. Ed essendo redditizio risulta appetibile sia per i grandi investitori – fondi finanziari speculativi di vario tipo – sia per le banche d’affari, tra cui Barclays, JPMorgan, Citigroup, Bank of America, HSBC (nelle prime cinque posizioni)… Cioè sempre le solite. Con l’aggiunta di due istituti italiani: Unicredit (undicesima) e IntesaSanpaolo (40esima).
Nell’indagine si scopre infatti che quasi il 60% dei finanziamenti per la produzione di plastica monouso proviene da appena 20 banche globali. E un totale di 30 miliardi di dollari di prestiti è giunto alle compagnie del settore dal 2011.
Venti gestori patrimoniali, poi, guidati dalle società statunitensi Vanguard Group, il notissimo BlackRock e Capital Group, detengono azioni per un valore di oltre 300 miliardi di dollari nelle società capofila dei produttori di plastica monouso. Di questi, 10 miliardi di dollari sono direttamente collegati alla produzione di polimeri monouso, specifica Minderoo.
Plastica di Stato e conflitto d’interessi
Uno degli aspetti più preoccupanti è però che cambiare modello di sviluppo per ragioni essenzialmente ambientali (e perciò economiche e sociali) richiederà un’immensa volontà politica.
Motivo per cui i ricercatori intravedono un grave ostacolo nella forte presenza pubblica che permane proprio nelle proprietà dei principali produttori di polimeri. «Si stima – scrive Minderoo – che il 30% del settore, in termini di valore, sia di proprietà statale, con Arabia Saudita, Cina ed Emirati Arabi Uniti tra i primi tre».