Banche e ricchi: ecco chi guadagna grazie alla crisi
Le iniezioni di liquidità concesse dalle banche centrali per risollevare l'economia sono intascate in larga parte da banche e fasce ricche della popolazione
Continua ad aumentare il divario tra main street e Wall Street. Se da un lato l‘economia reale subisce le pesanti conseguenze della pandemia, il settore bancario e finanziario macina invece profitti. In un recente articolo, il New York Times l’ha definita una «trading and investment bonanza» per gli operatori di Borsa. Una manna, in altre parole.
Com’è possibile una tale discrepanza, considerando che il compito della finanza dovrebbe proprio essere quello di sostenere e accompagnare le attività economiche? Il motivo è semplice: la maggioranza delle attività portate avanti da banche di investimento e altri attori finanziari è totalmente scollegata dalla cosiddetta economia reale. E riguarda trading di titoli, valute o altro. La situazione odierna conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che da tempo gran parte della finanza ha completamente perso di vista il proprio scopo sociale e da strumento si è trasformata in un fine in sé stesso, con l’unico obiettivo di fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile.
Tutto si spiega
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La finanza derivata assomiglia molto alle scommesse, e come nelle scommesse sui cavalli, l’interesse non è per l’animale, ma per l’esito della gara.
Solo parte della liquidità iniettata dalle banche centrali è andata a sostegno dell’economia reale
Uno dei fattori-chiave che spinge al rialzo i profitti finanziari è la montagna di liquidità iniettata dalle banche centrali per rispondere alla pandemia. Soldi che solo in minima parte affluiscono al sistema economico e produttivo, rimanendo incastrati in circuiti puramente finanziari se non speculativi. Per quanto la finanza possa apparire complicata, il meccanismo in sé è elementare: grazie alle misure messe in campo dalle banche centrali, gli istituti di credito possono ottenere liquidità a “costo zero”, ovvero a tassi bassissimi se non negativi. Soldi che non vengono impiegati per erogare credito al sistema produttivo, ma usati per acquistare titoli o magari per scommettere sull’andamento di indici o materie prime.
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Per la legge della domanda e dell’offerta, se tutti vogliono qualcosa il prezzo sale. Ecco allora che la montagna di soldi che si riversa su qualsiasi azione o obbligazione spinge al rialzo le quotazioni dei titoli e gli indici di Borsa. Aumentando le possibilità di profitto da trading per chi è in posizione di forza sui mercati finanziari. Soggetti per i quali diventa decisamente più conveniente inseguire tali speculazioni rispetto ad erogare finanziamenti a imprese e persone. Soprattutto in un periodo di crisi e di forte incertezza sociale ed economica. Uno degli effetti paradossali della situazione è che mentre non ci sono mai stati cosi tanti soldi in circolazione, cresce in molti Paesi il numero di persone e imprese giudicate “non bancabili”. Ed escluse dai servizi finanziari.
Il risultato di un tale andamento è una sempre maggiore divaricazione tra i fondamentali dell’economia e gli indici finanziari. Dal punto di vista macroeconomico è la definizione stessa di una bolla finanziaria, mentre l’effetto sulla società è quello di un’ulteriore crescita delle disuguaglianze. A fronte di aree sempre più vaste della popolazione che perdono il lavoro e scivolano verso la povertà, i miliardari vedono i propri patrimoni crescere a dismisura. Con un sistema finanziario che macina profitti e quello economico in crescenti difficoltà, per le grandi banche diventa sempre più conveniente puntare su trading e finanza pura invece di erogare crediti all’economia.
«Finché la musica suona, dobbiamo ballare»
In altre parole la spirale di disuguaglianze e distacco della finanza dall’economia si autoalimenta. Ovviamente una crescita dei profitti e degli indici finanziari non sostenuta dai fondamentali economici, ma “drogata” dall’eccesso di liquidità, non potrà continuare all’infinito. Torna alla mente l’intervista rilasciata al Financial Times da Chuck Prince, ex capo di una delle più grandi banche del mondo, Citigroup, nel 2007, anno dello scoppio della bolla dei subprime: «Quando la musica finirà, in termini di liquidità, le cose si complicheranno. Ma finché la musica suona, dobbiamo alzarci e ballare. Al momento stiamo ancora ballando».
La storia ha poi mostrato com’è andata: un sistema finanziario sull’orlo del collasso globale e per il quale sono stati necessari giganteschi piani pubblici di salvataggio. Finché le cose vanno bene i profitti sono privati, quando il giocattolo si rompe vengono socializzate le perdite. Al di là dell’ingiustizia, un gigantesco azzardo morale e un incentivo per i manager ad assumersi sempre più rischi. Ovvero a continuare a puntare su trading e speculazione con obiettivi di brevissimo periodo. E non su finanziamenti di lungo periodo alle attività produttive.
È successo non secoli addietro, ma solo una dozzina di anni fa. Eppure sembra che la lezione, se mai fosse stata appresa, sia già stata dimenticata. La finanza è ripartita come e peggio di prima. Da un lato le regole pensate dopo il 2007 per chiudere il gigantesco casinò finanziario – dalla separazione tra banche commerciali e di investimento a una tassa sulle transazioni finanziarie, da limiti all’uso dei derivati a una maggiore trasparenza – sono rimaste quasi interamente lettera morta. Dall’altro l’eccesso di liquidità in assenza di politiche economiche e industriali e di investimenti di lungo periodo spinge verso una nuova bolla finanziaria. Una combinazione tanto paradossale quanto devastante: una montagna di soldi a disposizione di una finanza senza regole. Banche di investimento e miliardari ringraziano. Il resto del mondo molto meno.
Andrea Baranes, autore dell’articolo, è vicepresidente di Banca Etica