Come la Cina è diventata leader globale delle terre rare

La strategia cinese per il monopolio delle terre rare si è dimostrata storicamente vincente dal punto di vista economico, meno per fisco e ambiente

Le terre rare evidenziate su una tavola periodica degli elementi chimici © PriBarbera/Rare Earth IN

Da sola detiene oltre il 62% della produzione mineraria, circa il 90% di quella complessiva a valle, e il 36,6% delle riserve mondiali di terre rare. La strategia cinese per il controllo dei metalli rari si è dimostrata storicamente vincente dal punto di vista economico e geopolitico. Un po’ meno da quello fiscale e ambientale.

1975-1990: come è iniziata?

Facciamo però un passo indietro. La Cina esporta prodotti derivanti dalla lavorazione di terre rare dal 1973, seppur in quantità esigue (150 tonnellate). Ben presto però, dai primi anni ’80, il Giappone e gli USA hanno aumentato considerevolmente le importazioni. Nel 1985, la capacità della Cina di produrre cloruri e ossidi misti era salita di conseguenza a circa 10mila tonnellate all’anno.

cina xi jinping terre rare
Il presidente cinese Xi Jinping © Antilong/Wikimedia Commons

Il governo cinese, attraverso il National Rare Earth Development and Application Leading Group, tra il 1975 e il 1990, ha agito incoraggiando lo sviluppo della nascente industria mineraria. E, soprattutto, le esportazioni. Queste ultime divennero quindi ammissibili al rimborso dell’imposta sull’export, il che ha stimolato ulteriormente la produzione. Dal 1985 al 1990, quest’ultima è raddoppiata da 8.500 tonnellate a 16.500, con un tasso di crescita annuo del 14%.

In questa fase, a causa della forte concorrenza interna tra il gran numero di produttori cinesi, i prezzi sono diminuiti drasticamente nonostante l’aumento della domanda. I problemi sono sorti però rapidamente. La produzione illegale è diventata pratica comune. Così, i prodotti illeciti si sono aggiunti all’offerta (ad un costo inferiore, evadendo le tasse e trascurando gli standard ambientali). Il che ha contribuito al ribasso dei prezzi.

1991-1998: una nicchia tutta cinese

Con il boom dell’industria high-tech negli anni ’90, il governo cinese si è reso conto dell’importanza del vantaggio accumulato negli anni sulla lavorazione delle terre rare. La strategia della Repubblica Popolare ha puntato così all’esclusione degli investitori esteri dal settore. E ad un meticoloso controllo sulle aziende per il rilascio delle licenze di estrazione. Solo le realtà più qualificate, capaci di rispettare le normative governative, avrebbero avuto il via libera per estrarre e esportare terre rare. Inoltre, nel 1991, la Cina ha identificato le argille ioniche come «minerali il cui sfruttamento è di interesse nazionale». Ha costruito così un canale esclusivo per l’approvvigionamento. Riservato alle sole imprese minerali statali e a poche altre, poi diventate grandi multinazionali vicine al governo di Pechino.

Si sono inoltre registrate acquisizioni strategiche di aziende con modalità non proprio trasparenti. È il caso della Magnequench, ex filiale di General Motors. Grazie ai finanziamenti del Pentagono in poco tempo aveva acquisito la leadership nel settore dei magneti permanenti. Nel 1995, due società statali cinesi, schermate da una società americana (la Sextant Group) l’hanno acquisita, per trasferire poi la produzione in Cina.

Il controllo cinese sulle terre rare minaccia gli Stati Uniti

Nonostante le numerose restrizioni, in questa fase si è registrata la crescita più cospicua della produzione totale (65mila tonnellate nel 1998) con un tasso di crescita annuo del 22%. Le misure governative non sono riuscite però ad arginare il fenomeno dell’estrazione illegale nella Cina meridionale. Che è tuttora un problema irrisolto.

Il riciclaggio di minerale sporco e l’impatto sull’ambiente

Sono numerosi gli studi che hanno cercato di quantificare la componente illegale di attività estrattiva di terre rare in Cina. Nella maggior parte dei casi si stima che la produzione abusiva dopo gli anni 2000 si sia attestata tra il 30% e il 50% del quantitativo legale registrato e immesso nel mercato dal governo cinese. Per quanto riguarda le cave di argilla lateritica (contenente terre rare) si valuta che l’attività illecita sia equivalente al 40% dell’estrazione regolare. 

Tali business illegali presentano un impatto estremamente significativo su economia e ecologia: hanno comportato una vasta evasione fiscale, ma hanno anche provocato danni ambientali considerevoli. Vi è inoltre una componente di spreco e mala gestione delle risorse naturali: le attività estrattive illegali, in genere, sfruttano solo le riserve di alta qualità delle miniere, per poi abbandonarle.

Infine, c’è la corruzione locale. Una ricerca americana del 2016 denunciava come spesso i governatori locali chiudano un occhio o, addirittura incentivino, l’estrazione illegale. Permettendo di fatto una sorta di “riciclaggio di minerale sporco”.

1999-2009: tutela ambientale o tutela del mercato delle terre rare?

Nei primi anni Duemila, le terre rare sono entrate a pieno titolo, così come tutte le altre produzioni, nella contrapposizione che caratterizza la crescita economica cinese. Sintetizzata nel conflitto tra la volontà di promuovere lo sviluppo economico, da un lato, e le considerazioni sull’ambiente e sullo sfruttamento delle risorse, dall’altro. 

Ovviamente, per il governo cinese, la crescita economica ha dominato la politica fino almeno alla fine del millennio. I problemi di sostenibilità ambientale erano tuttavia noti (anche per via dell’illegal mining fuori controllo).

Pechino ha introdotto quindi quote di esportazione (fino a una riduzione riduzione del 40%, nel 2009), tetti alla produzione e tasse sull’export. Ha poi ulteriormente rafforzato le restrizioni sugli investimenti esteri in metalli rari. Affermando che la manovra era dettata «da motivazioni di protezione ambientale e da politiche di tutela delle proprie risorse naturali».

«La Cina ha raggiunto una posizione di monopolio che eccede di gran lunga i sogni delle petro-dittature mediorientali»

Paul Krugman, 2010

Nel frattempo, nel 2010, Paul Krugman sintetizzava con queste parole gli effetti delle decisioni assunte dalla Cina: «Il Paese ha raggiunto una posizione di monopolio che eccede di gran lunga i sogni delle petro-dittature mediorientali». 

2010-2018: controversie internazionali e clima di tensione

Da parte sua, Pechino ha giustificato le maggiori restrizioni avviate dal 2005 proprio con la necessità di tutela degli ecosistemi. Ma, a livello diplomatico, per molti il motivo scatenante fu un contenzioso (ancora aperto) con il Giappone. Al centro della disputa, la sovranità delle isole Senkaku (e i vasti giacimenti petroliferi presenti nelle acque circostanti). In un primo momento il blocco riguardò infatti solo la nazione insulare, ma poi fu esteso anche ad Europa e Stati Uniti. 

Per questi Paesi la riduzione della fornitura cinese avrebbe rischiato di compromettere, se non paralizzare le industrie hi-tech. Nel frattempo, i prezzi delle terre rare erano lievitati del 300%, con punte fino al 4000%. La controversia fu risolta dal WTO che riconobbe come la Cina avesse violato le regole internazionali. Ma solo nel dicembre del 2014 il governo di Pechino ha rimosso le limitazioni alle esportazioni, normalizzando la situazione.

La comunità internazionale ha in ogni caso avviato una serie d’iniziative per tentare di ridurre la cronica dipendenza dalle terre rare cinesi. L’Unione europea, che non può contare su nuovi giacimenti, sta anche cercando di stringere accordi con produttori alternativi affidabili.

Più recentemente, poi, gli Stati Uniti hanno provato ad allontanarsi dall’ombra di Pechino. L’input è attivato dopo che la Cina aveva velatamente minacciato ritorsioni a causa della guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti. Una possibile interruzione della supply chain dell’industria elettronica ha fatto emergere negli USA la necessità di investire fortemente nella ricerca e nello sviluppo su materiali alternativi alle terre rare.

Cina e terre rare oggi: una leadership consolidata?

Le vicende economiche e geopolitiche che coinvolgono la Cina e la sua strategia il controllo delle terre rare sono dunque molteplici. Ciò nonostante si ritiene che Pechino riuscirà probabilmente a mantenere la propria leadership sul mercato. Ciò soprattutto per due ragioni.

In primo luogo, anche dopo il 2018, la silenziosa tattica cinese per il monopolio delle terre rare non sembra essere cambiata. Norme sempre più severe per l’estrazione mineraria e per le esportazioni, nonché una riduzione della produzione sono ancora alla base del programma del governo. Pechino tiene così per il bavero la gran parte dei colossi dell’hi-tech. Così i prezzi salgono e ogni scusa è buona per diminuire l’export (come adesso, per difficoltà di trasporto in tempi di pandemia).

La seconda ragione è che, pur non essendo “rari”, come il nome suggerirebbe, il processo di estrazione e di trattamento di questi elementi è molto costoso. Ma soprattutto complesso e difficilmente replicabile. In altre parole, la Cina sa di poter contare su competenze dal valore inestimabile. «Le terre rare hanno la particolarità che i loro giacimenti si sono formati in modo completamente diverso. Cosicché i metodi utilizzati per l’estrazione non possono essere replicati o esportati in altri Paesi», ha spiegato a Euronews Rodrìguez-Blanco, geologo e professore di nanominearologia al Trinity College di Dublino. «Ad esempio, il modo di separare i minerali nei siti di Bayan Obo, in Mongolia, sarebbe completamente inutile in una cava australiana o africana».