Dataviz | Clima, anche Unicredit e Intesa Sanpaolo ci hanno fatto perdere 5 anni
Unicredit e Intesa Sanpaolo figurano nell'elenco delle 60 banche internazionali che hanno concesso al settore delle fossili 3.800 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2020
Abbiamo perso cinque anni. A dirlo è un report uscito a dicembre scorso, a pochi giorni dal quinto anniversario dell’Accordo di Parigi sul clima. Pubblicato da un gruppo di Ong internazionali, tra cui l’italiana Re:Common, il rapporto punta il dito contro le banche e gli investitori che hanno continuato a finanziare li sviluppo di progetti legati alle fonti fossili. Carbone, gas e petrolio. Ormai unanimemente riconosciuti come la principale causa dei cambiamenti climatici.
“Five years lost” analizza dodici progetti. Dodici “bombe climatiche”. Dal Mozambico all’Argentina, passando per Bangladesh, Australia e Norvegia. Portate a termine, tali iniziative comporteranno nuove emissioni di gas climalteranti pari a 175 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2. Il che rappresenta il 75% di quanto possiamo ancora permetterci di disperdere nell’atmosfera (235 miliardi) se vogliamo limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, di qui alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali.
I maggiori investitori
Solo 20 investitori hanno fornito quasi la metà della cifra totale: 535 su 1.100 miliardi di dollari. Fra i maggiori investitori, sono gli statunitensi quelli che pesano maggiormente. Al primo posto c’è BlackRock, con 110 miliardi di dollari posseduti in azioni e obbligazioni di compagnie che operano nel settore delle fonti fossili. Segue a poca distanza Vanguard, con 104 miliardi di dollari. E poi State Street, con oltre 50 miliardi di dollari. Solo quattro tra i 20 maggiori investitori non sono statunitensi: il Fondo pensione norvegese è quinto con quasi 32 miliardi di dollari, UBS undicesima con quai 12 miliardi, Deutsche Bank oltre 10 miliardi.
Le banche che finanziano le fonti fossili
Più di metà dei finanziamenti alle compagnie fossili coinvolte nei dodici progetti analizzati dal rapporto arriva dalle maggiori banche: 949 miliardi su 1.600 miliardi di dollari. Le americane CitiGroup, Bank of America e JPMorgan Chase sono in testa con 295 miliardi di dollari. E tra le prime 20 banche ne figurano otto europee, da Barclays e HSBC a BNP Paribas, Deutsche Bank, Credit Suisse. E poi le giapponesi Mitsubishi e Mizuho, delle cinesi Bank of China e Industrial and Commercial Bank of China e della canadese Royal Bank of Canada.
Le banche italiane
Non mancano le banche italiane, ovviamente. Secondo il rapporto Banking on climate chaos, pubblicato nel marzo del 2021, due istituti figurano tra le 60 grandi banche internazionali che hanno concesso 3.800 miliardi di dollari alle compagnie implicate, a vario titolo, nello sfruttamento delle fonti fossili. Si tratta di Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il tutto nel periodo 2016-2020: dopo l’approvazione dell’Accordo di Parigi. Dopo, cioè, che la comunità internazionale si è formalmente impegnata a rispettare l’obiettivo degli 1,5-2 gradi centigradi.
La finanza fossile alimenta la crisi climatica
Secondo i calcoli delle Nazioni Unite la produzione di energia da fonti fossili è prevista in crescita del 2% all’anno tra il 2020 e il 2030. Mentre se vogliamo centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi dovrebbe scendere del 6% all’anno. Un primo passo nella giusta direzione sarebbe proprio smettere di finanziare la crisi climatica.